MA QUANTO VALE IL LAVORO DI UN RICERCATORE?

Qualche giorno fa il Coronavirus è stato isolato per la prima volta in Europa qui in Italia e nello specifico ciò è avvenuto presso l’ospedale Spallanzani di Roma da parte di un equipe formata da tre donne meridionali: la molisana Francesca Calovita di 30 anni; la siciliana Concetta Castilletti di 56 anni e dalla campana Maria Rosaria Capobianchi di 60 anni.

Di queste tre signore, la più giovane è impiegata, presso il nosocomio romano, con un contratto a tempo determinato in scadenza a novembre 2021 e pensare che ha alle spalle anche altre emergenze come quelle, ad esempio,  dell’Ebola in  Liberia e Sierra Leone.

Ora mentre tutto il mondo politico italiano era impegnato ha sottolineare la validità dei nostri ricercatori giacché, per chi non l’avesse ancora capito, il virus in questione non è stato isolato dalla comunità scientifica di Zurigo, né da quella di Stoccolma e men che meno  da quella di Parigi o Berlino piuttosto che da qualche Università Britannica, nessuno e dico nessuno qui in Italia, si è posto il problema di come sia possibile che, dopo anni ed anni di pregevole lavoro in questo delicato campo, possano ancora esistere  dei ricercatori costretti a lavorare per sola passione.

Infatti il contratto da precaria a 1.350 euro al mese stipulato per la Calovita, così come per migliaia di sue colleghe e colleghi, senza mai vedere uno straccio di assunzione a tempo indeterminato all’orizzonte, è qualcosa che francamente fa accapponare la pelle, specie se pensiamo quanto, invece, guadagno, ad esempio i calciatori, persone che, tutto sommato, non fanno altro che correre dietro una palla.

A questo punto, la vogliamo aprire o no, una riflessione seria su questa ed altre questioni similari?

Ad esempio:

  • La tanto bistrattata Università e scuola italiana hanno realmente bisogno di alcune riforme che le portino al cosiddetto “Livello Europeo” ed anglosassone nello specifico?
  • I migliori fuggono all’estero e qui, in Italia, restano solo i più incapaci e raccomandati?

Ad ambedue queste domande, con molta franchezza, mi sento di rispondere assolutamente di no.

La scuola italiana e la ricerca in particolar modo hanno bisogno solo di una cosa: più fondi!

Per il resto, secondo me, per migliorare la qualità del nostro sapere, bisognerebbe solo riportare le lancette della didattica indietro di circa trent’anni, cioè a prima che le competenze avessero il sopravvento sui contenuti. Queste ultime infatti sono importanti, ma per come lo studente vive attualmente all’interno della scuola e dell’Università, esse significano tutto e niente.

Come al solito si stava meglio quando si stava peggio!

Lorenzo Valloreja

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