CON ANTONIO CATRICALA’ L’ ULTIMO DEI SUICIDI ECCELLENTI (VERI O PRESUNTI TALI) D’ITALIA. MA ORMAI, I “GRANDI SERVITORI DELLO STATO” SONO SEMPRE PIU’ PERCEPIBILI COME “STATO PROFONDO” E APPARATO.

Misteri del Potere, tanto nell’ ascesa che nei crolli repentini e inspiegabili. O meglio, arcana imperii: le risposte sono nel deep state così riservato, sobrio e schivo, da apparire anzi essere, occulto. Fin quando qualcuno, nei suoi rispettivi settori, non “canta” come nel caso Palamara. E in tal caso, scatta la congiura del silenzio omertoso, del cordone sanitario dei media di Sistema.

Ma non divaghiamo, e lasciamo perdere accostamenti che a qualcuno potrebbero sembrare feroci e irrispettosi verso chi tragicamente e inopinatamente (comunque le cose siano andate) ha lasciato questa “valle di lacrime”.

Giacché il 24 febbraio Antonio Catricalà è stato trovato privo di vita, sul balcone di casa sua: all’ ipotesi investigativa è l’essersi tolto la vita mediante un colpo di pistola. Quindi, innanzitutto, parce sepultis.   

Ma qualche riflessione è lecito fare, perché il cursus honorum di Antonio Catricalà è davvero esemplare e significativo. Seguendone tutte le tappe o almeno le più importanti, e mi colpisce una certa continuità cronologica.

Tralasciando l’attività forense, peraltro prestigiosa e autorevole (diresse anche un corso per la preparazione al concorso in magistratura), la carriera accademica con la pubblicazione di testi utilizzatissimi nelle facoltà giuridiche, un periodo da magistrato amministrativo ad alto livello, ecco che nel 1997 Antonio Catricalà diviene capo di gabinetto del ministro delle Telecomunicazioni Antonio Maccanico e dovette occuparsi del cosiddetto salvataggio di Rete 4.

A questo punto, le porte della stanza dei bottoni gli si aprono, ma a un livello mai prettamente politico cioè elettorale: sembra che una costante della repubblica post Tangentopoli sia il Potere non necessariamente transitante per il vaglio del popolo almeno formale ma comunque più o meno diretto; anzi, che questo sia qualcosa di “antico” e meglio ancora se evitato. E che le appartenenze ideologiche, ammesso che vi siano, sono qualcosa di molto “liquido” non impedendo di passare da una formula politico-governativa ad un’ altra.

Poi, dal 2001 al 2005 è stato segretario generale del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Dal 2005 al 2011, al vertice dell’Autorità generale per la concorrenza e il mercato.

Nel 2011 è stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio sotto Mario Monti.

Chiusasi l’esperienza montiana, il dottor Catricalà divenne nel 2013 viceministro con delega alle comunicazioni di Flavio Zanonato, ministro per lo Sviluppo economico dell’esecutivo di Enrico Letta.

Il cursus honorum pare però bloccarsi, o almeno intralciato, quando si prospetta l’ambitissima nomina a giudice costituzionale. Nel 2014 infatti, la nomina a giudice costituzionale, assieme a quella di Luciano Violante, fu affossata dal voto segreto di franchi tiratori tanto berlusconiani quanto piddini. Una chiara microcongiura di palazzo volta a far saltare certe convergenze fra centrodestra berlusconiano e sinistra non bellaciao, ma certo anche una conferma che per certi pezzi di establishment, il voto popolare (fosse pure quello indirettissimo delle aule parlamentari), è una brutta bestia da aggirare il più possibile.

Pochi giorni prima del tragico, e pare volontario, epilogo del suo non credo misero percorso terreno, Antonio Catricalà era stato nominato a capo dell’ Istituto grandi infrastrutture (IGI, in pratica un centro studi dei costruttori di opere pubbliche).

La mia sommessa opinione “fuori dal coro”, per dirla alla Giordano, è che Antonio Catricalà sia stato un ottimo giurista, un ottimo pubblico funzionario, e che solo un pizzico di fortuna in meno gli abbia precluso incarichi ai vertici ministeriali. Ma in seguito, chissà: se un avvocato con studio a Roma e docente universitario a Firenze è diventato premier senza nemmeno transitare per un consiglio di quartiere, perché non sarebbe potuto toccare a lui che in fondo ne aveva maggiori titoli?

E il problema è questo: vi sono “albi d’oro” di persone (pomposamente dette “grandi servitori dello stato”) che di fatto, hanno diritto a qualunque accesso nella stanza dei bottoni, a poltrone, super poltrone e poltroncine. Anche in questo, il “sistema democratico” rivela incongruenze e contraddizioni. In Italia, per rimanere nel caso in questione, vi sono, credo, qualcosa come centomila avvocati e qualche milione di laureati in giurisprudenza. Perché solo a dieci, o venti, o magari cinquanta di loro (stima probabilmente esagerata) vengono conferite le chiavi di accesso al sancta sanctorum?

Il problema è in fondo vecchio quanto l’Italia unita: nonostante l’ enorme intralcio che grembiuli e cazzuole ebbero durante il Ventennio, lo stesso Mussolini ebbe a lamentarsi persino di un Balbo, che riteneva una spina nel fianco massonica di cui non riuscì a sbarazzarsi se non con la discussa morte da “fuoco amico” di costui nei cieli nordafricani.

Riguardo il presunto suicidio: l’agguerrita magistratura penale romana sta facendo il suo lavoro, ma la Storia d’ Italia insegna che venire a capo della verità, in questi casi, è molto difficile proporzionalmente agli interessi degli eventuali mandanti. Un suicidio inscenato da professionisti fa perdere tempo agli inquirenti nell’ appurarlo (ammesso che arrivino a tali conclusioni), prima di mettersi davvero sulle tracce della mano omicida. Si parla oltretutto di una grave malattia.

Certo, è difficile immaginare che un professionista di quella portata, all’inizio di una nuova sfida, non sia sostenuto almeno dalla curiosità che l’ opportunità gli susciti.

Due delle dichiarazioni rilasciate al momento della ferale notizia:

Il ministro Brunetta: “Lascia un vuoto incolmabile in tutti quelli che lo hanno conosciuto“. L’ex premier Letta: “Senza parole per una tragica scomparsa”.

Per quanto mi riguarda, però, vorrei evidenziare, qualcosa di inquietante nella sua eredità intellettuale, strettamente legato a quanto da un anno ormai, stiamo vivendo. Sinceramente, quel concetto di “distruzione creatrice” non mi piace per niente: conferma le ipotesi de L’ Ortis circa una sorta di apocalisse della piccola e media impresa che si starebbe ponendo in atto. E conferma anche quanto l’ esecutivo draghiano sia profondamente, organicamente, espressivo delle logiche e delle operatività mondialiste.

Il 27 gennaio scorso su Milano Finanza era stato infatti pubblicato il suo ultimo intervento dal titolo “Quella stretta via tra Stato e mercato per rilanciare l’Italia“, nel quale parlava anche del futuro governo Draghi. “Siamo in una fase straordinaria, che richiede la mobilitazione di tutte le energie del Paese e l’abbandono di contrapposizione ideologiche”, scriveva Catricalà. L’emergenza sanitaria, dunque “impone di concentrarci sulle condizioni dell’intero tessuto produttivo e sull’assetto che si intende dare al sistema economico italiano” e in questo quadro, secondo il giurista, “l’intervento diretto dello Stato nelle imprese è infatti solo uno strumento da utilizzare, con attenzione, per ridare slancio a un’economia che da troppi anni stenta a crescere, con ciò ampliando in modo inaccettabile le diseguaglianze sociali”. E precisava, “siamo davanti a un passaggio epocale durante il quale occorrerà contaminare modelli antitetici tra loro. Perché ha ragione il documento del G-30 coordinato da Mario Draghi a evocare ‘una certa quantità di distruzione creatrice’ e a prevedere che ‘alcune aziende si ridimensioneranno o chiuderanno, altre apriranno; alcuni lavoratori dovranno cambiare imprese e settori con un appropriato re-training e assistenza nella transizione’. Ma non sarà il libero mercato a sprigionare la sua distruzione creatrice: sarà la mano, visibilissima, dello Stato a guidare la direzione. E non solo in Italia”.

A. Martino

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