RIFORME, REFERENDUM E IL DISINCANTO DEGLI ITALIANI

Come sempre accade in Italia, in occasione di ogni tornata elettorale — dalle comunali alle politiche, passando per i referendum — tutti dichiarano di aver vinto e nessuno ammette di aver perso. O, forse, sarebbe più corretto dire che hanno perso tutti e non ha vinto nessuno. Fatto sta che, come recita il proverbio, il cetriolo finisce sempre all’ortolano. Ed è probabilmente proprio questa consapevolezza a spiegare perché ben sette italiani su dieci hanno deciso di disertare le urne.
D’altronde, chi ha la mia età (sono nato nel 1975) ha visto con i propri occhi in quali condizioni lavoravano i nostri nonni, quanto fossero tutelati i nostri genitori e quali siano oggi le “regole d’ingaggio”. È dunque pacifico — anzi, persino lapalissiano — affermare che vi sia stato un netto peggioramento delle condizioni lavorative per tutti. Le cause sono molteplici: dalla perdita della sovranità monetaria alla globalizzazione, che ha imposto un regime continuo di delocalizzazione industriale; dall’arrivo, dagli anni ’90 a oggi, di oltre un milione di disperati provenienti da Africa, Asia, Balcani e Sud America — che hanno contribuito in modo determinante all’abbassamento dei salari — fino all’endemica austerity europea, che ha impedito qualsiasi reale sostegno all’industria nazionale.
Eppure, molti si sono ben guardati dall’andare a votare. Perché temevano — e temono ancora — che qualunque riforma possa sottrarre loro quei pochi spiccioli che le leggi da abrogare garantivano. Perché, in Italia, la parola “riforma” non fa mai rima con vantaggio per il cittadino, ma solo con utile per lo Stato. Così come “referendum” è ormai sinonimo di “presa per il culo”.
L’esempio più eclatante lo abbiamo avuto — anzi, lo abbiamo tuttora — con i referendum contro il nucleare, proposti agli italiani per ben due volte: nel 1987 e nel 2011. In entrambi i casi, i cittadini si recarono in massa alle urne, superarono abbondantemente il quorum ed espressero con chiarezza la propria contrarietà all’energia atomica: con il 75% negli anni ’80 e addirittura con il 94% nel primo decennio del nuovo millennio.
Eppure, come se il popolo non si fosse mai espresso, la nostra classe dirigente continua a riproporre una fonte energetica che — piaccia o meno — è stata clamorosamente bocciata. E allora, se l’Italia è davvero una democrazia compiuta, com’è possibile ignorare il voto della maggioranza?
È chiaro: la maggioranza non ha sempre ragione — anzi — ma in una democrazia, una proposta, per quanto discutibile, se approvata dalla maggioranza degli elettori, assume comunque la dignità della ragione. Non rispettare questa regola aurea ha finito per svuotare il referendum del suo significato più profondo, facendogli perdere credibilità e autorevolezza.
D’altronde è lo stesso principio per cui molti cittadini non si recano più nemmeno alle elezioni politiche: perché troppo spesso, in Italia, è accaduto che una maggioranza chiaramente espressa dagli elettori venisse poi sistematicamente ribaltata da giochi di palazzo e inciuci.
Ma si sa: la politica — come il pensiero — corre più veloce dell’essere umano. E così, Forza Italia, in nome della “razionalizzazione degli sprechi”, ha pensato bene di proporre un innalzamento del numero minimo di firme necessarie per indire un referendum abrogativo: da 500.000 a 1.000.000. A questo punto — verrebbe da dire — tanto vale richiedere anche il Santo Graal in allegato. Perché no? Darebbe solo “autorevolezza” all’iniziativa…
E pensare che negli anni ’90 Gianfranco Fini e il Movimento Sociale Italiano erano favorevoli a un potenziamento dell’istituto referendario, arrivando addirittura a proporre l’introduzione del referendum propositivo come strumento di democrazia diretta. Oggi, però, gli stessi hanno suggerito ai cittadini di disertare in massa le urne… Non che gli esponenti della sinistra non lo abbiano fatto a loro volta, in passato.
Ed è proprio questo che non va: l’uso di una dialettica spregiudicata per giustificare tutto e il contrario di tutto, condannando senza mezzi termini chi la pensa diversamente.
Io, comunque, mi sono recato a votare. L’ho sempre fatto, da quando ho compiuto diciott’anni. Perché il voto è il sale della democrazia: un diritto troppo importante per essere trascurato, anche quando — come spesso accade — non produce risultati tangibili.
Ma al di là di questo, anche se con un quorum non raggiunto, i referendum del giugno 2025 hanno dato una forte indicazione politica al legislatore e a tutte le forze politiche, soprattutto con il risultato del quinto quesito: quello sul dimezzamento del periodo necessario per ottenere la cittadinanza italiana, da 10 a 5 anni. Oltre il 65% dei votanti si è espresso contro il cambiamento. Un risultato francamente inaspettato, persino da chi — come me — fa parte di quel 65%.
Questo dimostra che il malessere verso la gestione della migrazione non è una priorità di una sola parte politica, ma un disagio trasversale che coinvolge anche molti migranti regolari, che sono entrati legalmente o che hanno pazientemente seguito tutto l’iter previsto.
Il risultato, unico “no” vincente tra i cinque quesiti, è indicativo anche del successo degli altri “sì”. Perché la questione migratoria è percepita, come detto all’inizio, come un fattore che abbassa il costo del lavoro, andando a sfavore delle buste paga.
La maschera è caduta e l’ipocrisia è rimasta nuda: questo pietismo verso l’immigrazione — al netto delle motivazioni religiose, per chi le ha — è mosso solo da interessi economici di chi gestisce il sistema e da calcoli politici di chi cerca disperatamente nuovi elettori. Ma, escluse queste eccezioni, la cittadinanza è — viva Dio — considerata da tutti, migranti compresi, una cosa troppo seria.
Roma, per essa, ci rimise l’Impero. E infatti, al mondo, nessun Paese la regala.
Spesso è stata conquistata con il sangue — basti pensare ai nostri bisnonni — altre volte viene concessa per diritto di sangue, in omaggio al sacrificio di chi ci ha preceduti. Quasi mai per aver ottenuto un semplice titolo di studio, o almeno, solo dopo aver dimostrato di averci messo anima e pelle.
Ora vedremo se, anche questa volta, i nostri leader faranno orecchie da mercante, invocando chissà quali cavilli. Ma, a giudicare dai commenti sui fatti della California da parte dei soliti noti, temo che — ahimè — non ci sia proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale.
Lorenzo Valloreja
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