LA GUERRA (NON) SERIA DEL MEDIO ORIENTE TRA MISSILI, TEATRINI E TELEFONATE DI MEZZANOTTE

Mentre tutto il mondo trema – non solo per i missili che Israele e Iran si stanno “simpaticamente” scambiando da una decina di giorni, ma anche (e soprattutto) per l’intervento diretto degli Stati Uniti a favore di Tel Aviv – io, come il grande Flaiano, sono più propenso a dire che, fortunatamente, “la situazione è grave, ma non seria”.
D’altronde, se così non fosse, sarebbe difficile spiegare perché la Casa Bianca, prima del bombardamento al centro di arricchimento di Fordow, abbia avvisato per tempo sia il Cremlino che le autorità iraniane, permettendo a queste ultime di evacuare tutto il materiale fissile accumulato fino ad allora con una carovana di cinquanta camion.
Stessa musica sul fronte opposto: gli ayatollah hanno preannunciato agli americani l’attacco alle basi di Doha, offrendo loro la possibilità di mettere in salvo uomini e mezzi. Sembra quasi un patto tra gentiluomini più che una guerra. O meglio: una messinscena degna del Ru Howzi, il teatro comico popolare per eccellenza in Iran.
Ma tant’è.
Trump, del resto, non ha mai avuto un’alta opinione di Netanyahu: l’ha definito più volte un “deep, dark son of a bitch”, che in italiano suona come “subdolo figlio di puttana”. Tuttavia, il tycoon sa bene a chi deve la sua sopravvivenza politica. La comunità ebraica americana non l’ha mai abbandonato, nemmeno nei giorni più difficili del post-Capitol Hill. E sua figlia Ivanka, convertita all’ebraismo, è sposata con Jared Kushner, imprenditore immobiliare ebreo ortodosso.
Risultato? L’amministrazione Trump è, per radici e rapporti personali, la più legata a Israele tra tutte quelle viste a Washington.
Legata sì… ma non scema.
Perché, sebbene l’uranio sia stato messo in salvo, l’attacco a Fordow ha comunque tolto a Israele la scusa per continuare a colpire. Lo ha detto lo stesso Trump, insieme a Netanyahu: “la minaccia nucleare è neutralizzata”.
Dunque, ora si può (o si deve) trattare.
Anche perché l’attacco iraniano alle basi americane è stato liquidato da Trump con un secco: “very weak response”, una reazione debole, utile solo a salvare la faccia in patria.
E qui arriva il punto più interessante. La proposta trumpiana di affidare alla Russia un ruolo di mediazione in Medio Oriente non è mai stata così attuale. Lo ha confermato il ministro degli Esteri iraniano in visita a Mosca: “Non sappiamo più di chi fidarci in Occidente. La Russia è un Paese amico”.
Putin, dal canto suo, ha rincarato la dose: ha detto al ministro Araghchi che può chiamarlo “a qualsiasi ora del giorno e della notte” per discutere la crisi nucleare. E ha aggiunto: “Trump è sempre reperibile quando lo chiamo”.
Dunque, non tutto il male viene per nuocere.
Forse da questo caos può nascere una pace a più livelli: in Iran, a Gaza, in Ucraina. Perché dopo la tempesta c’è sempre la quiete, dopo il terremoto il silenzio. Ma – ahinoi – non esiste tempesta senza naufraghi, né sisma senza vittime. E, come sempre, le vittime portano lo stesso nome: palestinesi.
Gli unici che pagheranno per tutti. Anche per chi – che Dio lo fulmini – per anni ci ha ammorbato con la retorica di “aggredito e aggressore” e ora, archiviato quel mantra, ci rifila la favola del “lavoro sporco fatto per il bene di tutti”.
Lorenzo Valloreja
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