VE LA DO IO HALLOWEEN, MA ITALIANA E D’AUTORE. “IL PROFUMO DELLA SIGNORA IN NERO” DI FRANCESCO BARILLI.

Anche questo anno, a Dio piacendo, celebriamo una Halloween molto alternativa, rendendola almeno utile a onorare il nostro cinema horror.

Quando nel 1974 uscì Il profumo della signora in nero del pur non esordiente ma già apprezzato regista Francesco Barilli, chi non andò a vederlo ritenne che si inserisse, anche abbastanza spudoratamente, nella scia del polanskiano Rosemary’s baby (il che poi farà in qualche modo, anche un mostro sacro della statura di Lucio Fulci con Manhattan baby del 1982). Parliamo insomma del “complottismo satanico”.

In effetti, la protagonista Silvia Hackermann (Mimsy Farmer), nazionalità a parte e all’epoca moglie dello scrittore Vincenzo Cerami, ha nella fatica del nostro cineasta non pochi elementi in comune con la povera Rosemary interpretata da Mia Farrow: una femminilità fisicamente delicata che si riflette sulla fragilità della psiche (qualcuno a proposito ne è stato informato), e una discreta somiglianza. Indubbia la citazione del coltellaccio preso in cucina per difendersi nella solitudine notturna, da non so chi. Ma poi, il film prende tutta una sua strada.

In una intervista Barilli rivelò, che nell’ambito della catena produttiva, la sceneggiatura (dell’ottimo Massimo D’Avack) si avvalse di pareri nientemeno che di Bernardo Bertolucci (parmense come Barilli), e in effetti la storia è originale, inquietante forse anche più di certe narrazioni argentiane, e culminante in un finale così sconvolgente e inopinato da avere forse nessun pari nel cinema italiano. Questa la storia.

Una giovane chimica (simbolo quindi, di razionalità ed emancipazione femminile), ha alle spalle un vissuto infantile estremamente traumatico, che la condiziona nei rapporti affettivi e sessuali. Infatti, morto suo padre (ufficiale di marina) in un naufragio, la madre prende in casa un amante: bieca figura (Orazio Orlando), che gode nel farsi sorprendere dalla bambina a letto con la madre in un parossismo sessuale simile più allo stupro che all’amore. E forse, abusa della piccola Silvia. A quanto pare, la madre, incapace di continuare a sopportare la situazione vergognosa quanto malata, si uccide lanciandosi nel vuoto mentre allestisce il tricolore per un giorno di festa (profezia per la finis Italiae?).

Fra uno strano vicinato, amici della Roma bene e cosmopolita ambigui quanto allestenti sedute spiritiche, il fidanzato che lo è più di tutti, e addirittura tra quelli un ricco africano che pontifica di magia nera e riti vudù (e che riesce a catturare e succhiare qualche goccia del suo sangue da un dito ferito, chiara allusione sessuale), Silvia sprofonda sempre più in un terrore fatto di allucinazioni forse fantasmatiche, e irruzioni del passato sempre più invasive e invalidanti, nella sua vita. Certo, il vivere nel bizzarro e simbolistico “quartiere” Coppedè (cornice per svariati film impressionistici e dell’orrore) di Roma non l’ aiuta.

Alla fine, si riduce, abbandonando il lavoro, in un universo allucinato convivendo con una bambina che è la proiezione della sua infanzia. Crede di fare truculenta giustizia di chi subdolamente la insidia compreso il vecchio amante della madre, ma è solo il suo inconscio che vorrebbe ribellarsi: non uccide proprio nessuno, anzi si suicida come sembrò avesse fatto la madre. Ma le cose, purtroppo e atrocemente non stanno così, riducendosi al tragico epilogo di una vita tormentata derubata degli anni più felici. Silvia è spinta nel vuoto dalla bambina (fantasma o allucinato alter ego?), proprio come ella fece con la mamma che fu quindi uccisa dal lei, altro che suicidarsi. Però non finisce assolutamente qui.

In qualunque critica o storia dell’horror italiano, a questo punto, si accenna solo a uno “sconvolgente finale” con allusioni al cannibalismo, stante la pur rispettabile convenzione che impedisce, nel caso di film di particolare valore e impatto emotivo, di non svelarne il finale. Voglio invece fare questo piccolo regalo ai nostri lettori, sperando che ciò li avvicini non solo alla visione della pellicola che il sottoscritto, alla sua uscita, non poté visionare per ovvii motivi anagrafici e di divieto; ma anche al cinema di Francesco Barilli; o di più e meglio, agli anni d’oro dell’horror italiano con la sua dirompente e attualissima carica simbolica e provocatoria, che ormai in diversi articoli ho evidenziato. La pellicola è disponibile in dvd.

L’operazione narrativa di Barilli è chiara quanto originale: la pista della storia di probabili fantasmi esasperata con arti oscure non è la vera tenaglia sulla sventurata chimica, ma solo lo strumento di una impensabile e ramificatissima setta a caccia di vittime, sia per abietta quanto incontenibile esigenza sia per sadismo e malvagità pura.

Ebbene, il cadavere di Silvia Hackermann è portato in un antro (un po’ sibillino, un po’ catacomba) in cui una folla incredibile comprendente tutti coloro che con lei avevano avuto a che fare, si ciberà orrendamente del suo corpo, con effetti splatter magistralmente ottenuti da Barilli mediante dipezzature fresche di buoi. Lo sconvolgente pasto collettivo si svolge con burocratica disciplina e indossando camici grigi per non macchiarsi di sangue e sminuirne l’evidenza. La folla presto si dileguerà, come precipitandosi i mostruosi antropofagi a rioccupare i loro bravi e rispettabili posti nella società borghese.

Il Male è tra di noi, e ama ghermire le fragilità e le infelicità. Non è necessariamente metafisico, almeno esteriormente, ed ha educazione e reputazione.

A. Martino

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