LA PERDITA DELL’UMANITÀ: MENTRE A GAZA C’È CHI CREPA, NEL CIRCONDARIO C’È CHI BALLA

Il genocidio che si sta compiendo a Gaza è ormai da mesi sotto gli occhi di tutti, ma nessuno fa nulla per fermarlo, nemmeno i Paesi arabi che, in teoria, dovrebbero sostenere la causa palestinese.
D’altronde, come dimenticare che, a seguito della risoluzione dell’ONU del 1947 – che prevedeva la partizione della Terra Santa in due Stati, uno ebraico e uno palestinese – e della successiva sconfitta degli eserciti arabi nella guerra d’indipendenza israeliana del 1949, i territori destinati all’Amministrazione Palestinese furono immediatamente occupati e amministrati dall’Egitto (la Striscia di Gaza) e dalla Giordania (la Cisgiordania).
Così, per anni, i palestinesi rimasero senza uno Stato, senza cittadinanza e sotto amministrazioni straniere.
I palestinesi
sono diventati, nel tempo, gli agnelli sacrificali della politica estera delle
grandi potenze. Come già affermavo in tempi non sospetti, salutando il ritorno
di Donald Trump come un’opportunità tanto per la Russia quanto per l’Occidente,
mi rammaricavo tuttavia del fatto che, alla fine della fiera, a pagare il
prezzo sarebbero stati – ancora una volta – proprio i palestinesi.
E così, infatti, è stato.
Tuttavia, poiché – come recita il proverbio – “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, ho sempre saputo (e sperato) che la reazione sproporzionata di Israele alle stragi del 7 ottobre 2023 avrebbe finito per risultare troppo compromettente.
Parliamo, infatti, ad oggi, di circa 180.000 morti a Gaza, contro 1.200 cittadini israeliani uccisi brutalmente durante l’operazione denominata “Alluvione di al-Aqsa”. In termini numerici, ciò equivale a 150 palestinesi per ogni ebreo ucciso: un’enormità che non può – al di là delle legittime sensibilità di chi ha vissuto, sulla pelle dei propri familiari e amici, quei lutti – non essere definita genocidio, al netto dei tecnicismi o dei bizantinismi del diritto internazionale.
Ma ciò che più incide su questo giudizio così grave non è soltanto l’elevatissimo numero di vittime – tra cui tantissimi bambini morti di fame, di malattia o sotto le bombe – quanto la perdita di umanità da parte di chi, per natura e istinto, dovrebbe rappresentare non solo la bellezza, ma anche la tolleranza, la carità e l’amore per i più deboli.
Mi riferisco, nello specifico, alle tante bellissime tiktoker israeliane impegnate nel loro servizio militare.
Infatti, se anche voi avete TikTok, vi sarà capitato almeno una volta di imbattervi in qualche video dove bellissime ventenni israeliane – in uniforme militare modificata, resa più aderente da sarte esterne che trasformano pantaloni e camicie in abiti “skinny” – ballano, da sole o in gruppo, sulle hit del momento.
Lo fanno nei più disparati contesti: in fureria, al poligono, dentro un carro armato, o mentre impugnano l’iconico Galil. Lo fanno con allegria, leggerezza e una spensieratezza che solo i vent’anni possono concedere.
E guardando
quegli occhi da cerbiatte, quei sorrisi ammiccanti e sereni, non posso non
chiedermi:
com’è possibile che queste stesse persone possano poi, senza colpo
ferire, portare la morte tra donne incinte e bambini di tre o quattro anni?
Com’è possibile che, sentendo l’odore dei corpi in decomposizione o le grida disperate dei civili, possano rimanere così leggere, così serene?
Come riescono a essere, allo stesso tempo, il dottor Jekyll e mister Hyde?
È questa la domanda che mi tormenta. E so già che non sarà per i miei dubbi o le mie doglianze che l’antisemitismo troverà nuova linfa. Ma, piuttosto, per ciò che il comando supremo dell’IDF tollera, avalla, forse perfino promuove.
Forse però, questi alti ufficiali non conoscono Totò.
E soprattutto, non conoscono “’A livella”.
Perché se la conoscessero, saprebbero che chi porta la morte – come un soldato – non può permettersi la leggerezza. Non può permettersi l’ironia né la vanità.
Perché, come Totò ha detto con verità e semplicità disarmanti: “Nui simmo serie …appartenimmo a morte!”
Lorenzo Valloreja
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