ANCHE RE CARLO, DA RE DEL CANADA, SI SCHIERA CONTRO TRUMP CON UN INSOLITO DISCORSO AL PARLAMENTO DI OTTAWA. E SE THE DONALD SI ACCONTENTASSE SOLO DELL’ALBERTA?

Come accennavo, re Carlo III del Regno unito di Gran Bretagna e Irlanda del nord, ha esercitato le sue prerogative di sovrano anche del Canada, pur nell’assoluta rappresentatività del suo ruolo (oltretutto in Canada potrebbe benissimo delegare tutto al Governatore generale che sarebbe una sorta di viceré), con insolita assiduità e impegno.

Il Canada, oltre che appartenere al Commonwealth come gran parte delle ex colonie della Corona, continua a riconoscere appunto il monarca britannico quale proprio re, come ad esempio e innanzitutto, Australia e Nuova Zelanda.

Difficile non mettere ciò in relazione con le reiterate profferte di unione tra Canada e USA fatte dal presidente Trump con eccessiva spontaneità e salto di qualunque diplomazia. Come potrebbe fare a meno il re del Canada di rimarcare come dinanzi al locale parlamento ha fatto con un insolito discorso della Corona, che la Maple Leaf “non è in vendita”? Ignorarlo sarebbe abdicare al titolo canadese (tra l’altro una forte corrente repubblicana gradirebbe la rescissione di questo pesante legame residuo con Londra), e lì pure, sulle sponde del Tamigi e all’ombra del Big Ben, farebbe una figuraccia non da poco. Carlo III ha anche citato una strofa dell’inno nazionale parlante di un grande Nord “libero e forte”.

L’ultimo discorso della Corona al parlamento di Ottawa in seduta inaugurale risale addirittura ai primissimi anni di regno di Elisabetta II (circa ben settanta anni fa).

Eppure, gravano delle ombre sul granitico patriottismo dei canadesi in reazione alla “follia” di Trump. E’ innanzitutto contraddittoria questa riesumazione dell’orgoglio delle frontiere e delle divisioni nazionali da parte del main stream della filiale di Ottawa (frontiere dovute semplicemente al punto di arrivo della guerra di indipendenza americana di 250 anni fa e a successivi trattati fra Londra e Washington che sancirono ben due secoli di coesistenza fraterna e pacifica fra Canada e USA, contrabbando e affari d’oro durante il proibizionismo a parte). Oltretutto, i più giovani stentano ad associarsi a tanto nazionalismo contro cui nelle scuole, nell’era dell’ultraglobalista Trudeau si è tuonato un giorno sì e l’altro pure. 

Ma l’ ombra più preoccupante viene dalla provincia dell’Alberta. A guastare l’euforia per il mancato pericolo, grazie alle urne elettorali, dell’onda lunga fagocitatrice trumpiana; in sostanza, della conferma dello status quo.

Sì, perché la governatrice locale di destra Danielle Smith di uno stato tradizionalmente di destra e non nuovo a spinte separatiste, si è detta disponibile, in caso di sufficiente raccolta delle firme, a un referendum circa l’indipendenza dell’ Alberta. Ebbene, al momento, il 30% dei canadesi di quella provincia favorevoli al distacco da Ottawa e dalle giubbe rosse, secondo un sondaggio sarebbero favorevoli a diventare il cinquantunesimo stato degli USA (ipotesi più sensata di un unico enorme stato dentro gli USA in cui le diverse province, di fatto, andrebbero a scontare un centralismo ora inesistente).

Non è certo molto come percentuale di consensi a Trump, ma in fondo l’idea dell’annessione è clamorosamente neonata e il passare del tempo e dello scontento economico per la gestione dei proventi minerarii  (non decenni ma qualche anno), unitamente a qualche regalino in dollari USA dalle parti di Edmonton (capitale dell’Alberta) potrebbe aiutare e non di poco.

A. Martino

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