PARLARE È FACILE, CONTARE È DIFFICILE: L’ILLUSIONE DEMOCRATICA DEI SOCIAL NETWORK

Il ministro della propaganda nazista, Joseph Goebbels, soleva dire: “Una
bugia ripetuta mille volte diventa verità.”
Un’affermazione drammaticamente attuale, che non nasce da chissà quale scoperta
straordinaria, ma da una semplice e fredda constatazione empirica.
Da qui derivano alcune verità scomode:
• La propaganda non serve a informare, ma a plasmare la percezione della
realtà;
• La ripetizione è una delle armi più potenti per consolidare un messaggio;
• Il pubblico, esposto costantemente a un’idea, finisce per ritenerla vera,
anche quando è palesemente falsa.
Questo meccanismo lo osserviamo non solo nella narrazione dei principali conflitti attuali – come la guerra in Ucraina o a Gaza – ma anche nella memoria storica e nella percezione collettiva di molti eventi.
Pensiamo, ad esempio, alla democrazia ateniese, spesso mitizzata in Occidente come modello fondativo. Ma quella democrazia, nel V e IV secolo a.C., era tutt’altro che inclusiva. Solo il 15% circa della popolazione godeva dell’eleuthería, cioè del diritto di partecipare alle decisioni pubbliche. Tutti gli altri – donne, schiavi, stranieri – ne erano completamente esclusi.
Da questa falsa aspettativa abbiamo costruito modelli mentali idealizzati, spesso utilizzati dal potere per generare consenso e delegittimare l’avversario.
Persino Mussolini, Stalin e Hitler parlavano di libertà nei loro discorsi.
Ma era una libertà ben diversa da quella che intendiamo oggi: una libertà
esercitabile solo attraverso la subordinazione alla Nazione, allo Stato, al
Partito o alla Classe.
È la logica dello Stato etico, come lo immaginava Gentile: “Tutto nello
Stato, nulla al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato.”
Una visione che legittima l’impunità geopolitica verso l’esterno – cioè
l’assenza di limiti giuridici all’espansione – e l’impunità morale verso
l’interno, nel perseguire l’ideale dell’“uomo nuovo”.
D’altra parte, anche le democrazie liberali – dagli Stati Uniti alla Francia e alla Gran Bretagna – non hanno sempre agito in modo irreprensibile, né verso i propri cittadini né verso i popoli che volevano “redimere”.
Basti pensare a:
• il regime segregazionista negli USA, durato fino agli anni ’60, o in
Sudafrica fino agli anni ’90, o – secondo molti osservatori – ancora oggi
presente in Israele;
• il colonialismo spietato di Paesi formalmente democratici come la Francia nel
Maghreb, la Gran Bretagna in India, o il Belgio in Congo;
• il ritardo nel riconoscimento del diritto di voto alle donne: nel 1971 in
Svizzera, nel 1952 in Grecia;
• la censura politica verso determinati partiti: il Partito Comunista negli
Stati Uniti, in Germania e in Corea del Sud; il Partito Fascista in Germania,
Austria, Italia, Francia e Spagna;
• le cosiddette guerre preventive degli USA in Iraq, Afghanistan, Libia:
ufficialmente per esportare la democrazia, ma spesso in difesa di interessi
strategici;
• l’obbligo vaccinale durante la pandemia, con compressione della libertà di
movimento e responsabilità ricadute sui singoli cittadini in caso di effetti
avversi;
• l’annullamento di elezioni o le sanzioni, in caso di risultati sgraditi, come
accaduto in Romania, Austria e Algeria.
Dopo 5.000 anni di storia scritta, possiamo dire che Noam Chomsky ha forse colto meglio di chiunque altro il nocciolo della questione:
“La libertà di espressione è difesa solo quando conviene al potere.”
E il riferimento è al potere in quanto tale, non a un potere specifico. La prova? Ci si indigna per la censura nei Paesi nemici, ma si tace – o si giustifica – quella interna. Censura che si attua, ad esempio, attraverso la ghettizzazione ideologica (accuse di negazionismo o revisionismo) o tramite l’esclusione dai canali dell’informazione.
Chomsky ci dice che, nelle democrazie, esiste una libertà solo formale, svuotata di contenuto reale, perché i media – controllati da élite economiche e politiche – filtrano le notizie, manipolano la percezione e generano un consenso artificiale.
La censura, dunque, non è esplicita, ma strutturale, sistemica. È un meccanismo che distrarre, intrattiene, confonde.
Hannah Arendt sosteneva che la libertà nasce nel confronto pubblico, nello spazio condiviso. George Orwell affermava:
“La vera libertà è dire alla gente ciò che non vuole sentire.”
Un’altra arma sottile del potere è la semplificazione del linguaggio e del messaggio.
Durante il fascismo, ad esempio, la cronaca nera era quasi del tutto censurata: poteva minare la fiducia nel regime e nell’ordine sociale. Veniva pubblicata solo se utile alla propaganda, ad esempio per giustificare repressioni o colpire minoranze come zingari, comunisti, omosessuali.
Dopo la guerra, con la nascita della Repubblica, esplodono prima il gossip, poi la cronaca nera. Gli italiani, provati da lutti e conflitti, cercavano evasione, leggerezza, modernità. Nasce il divismo: Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Mastroianni…
I giornali scandalistici – Oggi, Gente, Novella 2000 – rispondono a questa esigenza. Il pettegolezzo diventa pedagogico: mostra cosa è normale e cosa è scandaloso.
Negli anni ’70 e ’80, mentre l’Italia è scossa da terrorismo, mafia e
violenza, la cronaca nera diventa un modo per raccontare – e contenere
– il caos.
Dopo Tangentopoli, con le istituzioni percepite come deboli, programmi come Chi
l’ha visto?, Porta a Porta, Quarto Grado diventano
surrogati di giustizia e collanti emotivi.
Perché la cronaca nera:
• coinvolge,
• emoziona,
• unisce “contro il mostro”,
• costa poco,
• si autoalimenta.
Tutto questo si sposa con il liberalismo quotidiano, che
garantisce la libertà di consumare, desiderare, divertirsi, ma
non quella di pensare, creare, trascendere.
Lo avevano capito Julius Evola e Oswald Spengler.
Oggi vediamo adolescenti e adulti abituati al consumo di alcol, droghe, pornografia, anche in forme estreme. Il sistema non solo lo tollera, ma lo favorisce, purché non si tocchino le narrazioni ufficiali. Le vittime, però, restano sempre sole, come nel caso delle donne e degli uomini coinvolti in episodi di revenge porn.
Guai a parlare di genocidio a Gaza. Guai a chiedere quante armi l’Italia ha fornito a Kiev. Guai a fare informazione seria.
Possiamo invece parlare all’infinito della farfallina di Belen, del gol di Acerbi al 93° minuto, dell’orsetto Knut o del Grande Fratello. Ma mai delle questioni che toccano davvero il potere.
Il caso Fabrizio Corona è emblematico: punito non tanto per i reati – estorsione, bancarotta, corruzione – quanto per aver violato il codice non scritto del potere:
non si espongono i potenti.
Così, le sue condanne sono risultate più gravi di quelle comminate per reati simili nel mondo politico o finanziario.
Il potere sa usare anche l’antagonismo fascismo/antifascismo come arma
di distrazione di massa.
E siamo ancora qui, dopo 80 anni, a discutere di rossi e neri.
Ma non credo che Togliatti fosse impazzito quando proclamò l’amnistia nel
1946.
Né che i padri costituenti fossero ingenui nel limitare a soli cinque anni
l’esclusione degli ex fascisti.
E nemmeno che le sentenze degli anni ’90 e 2000 – che hanno riconosciuto la
legittimità del partito Fascismo e Libertà – valgano meno di quelle
odierne.
Allora la domanda è:
I detrattori del neofascismo di oggi sono più autorevoli dei padri della
Repubblica?
O forse la parola “fascismo” serve solo a bloccare il pensiero?
Anche la commemorazione di un ragazzo morto da parte della sua comunità
militante, con il rituale del “presente”, può servire a distrarre dai
veri problemi.
Come se Sergio Ramelli quel saluto non l’avesse fatto anche in vita. Ma è
davvero questo il problema?
Siamo, come avrebbe detto Edward Wheeler Scripture, rane bollite: immerse in acqua fredda che si riscalda lentamente, fino a bollire, senza rendersene conto.
E la cartina di tornasole è il World Press Freedom Index 2025, che colloca l’Italia al 49° posto su 180.
Siamo in buona compagnia:
- Germania 10°,
- Francia 25°,
- Regno Unito 31°,
- Grecia 48°,
- USA 57°,
- Israele 112°,
- Russia 171°,
- Cina 178°.
Il rapporto è redatto da Reporters Sans Frontières, finanziata per oltre metà dallo Stato francese e da fondazioni come la Open Society di Soros.
Questo rende il report inattendibile? No.
Ma certamente partigiano.
Ecco perché le persone si rifugiano nella rete. Saltano i filtri dei professionisti dell’informazione. Perché il re è nudo. Nessuno si fida più di nessuno.
Ma questo processo ha un difetto: non favorisce il confronto.
Ognuno si chiude nella propria bolla. E quando incontra chi la pensa
diversamente, prevale l’insulto, non la dialettica.
Crediamo che la digitalizzazione abbia aumentato la democrazia.
Io credo invece che abbia aumentato la solitudine.
Un tempo, con l’elenco telefonico, potevi chiamare la redazione del Corriere o la Presidenza del Consiglio, e qualcuno ti rispondeva.
Oggi, al massimo, risponde una voce automatica. O una mail a cui nessuno replica.
Urliamo sui social. Ma nessuno ci ascolta.
Ed è per questo che, per me, la libertà di parola non esiste più.
Lorenzo Valloreja
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