“PIATTI” ANZI “PIATTINI” DI CONDIVISIONE” FORNITI ALLA MODICA CIFRA DI DUE EURO; TAZZINA, ZUCCHERO E PIATTINO PORTATI DA CASA PER FRUIRE DELL’ESPRESSO IN OFFERTA….COSA NON SI FA, PER ILLUDERSI DI ESSERE ANCORA DEI SIGNORI….

Mi secca il rischiare di passare per novello Catone il censore e facile fustigatore da tastiera delle storture di una società “complessa” (si dice così per non dire malata), ma qui a L’Ortis non possiamo stare zitti per DNA intellettuale e per munus (altro che mission nella (neo)lingua dei padroni, voglio usare il latino che una volta anche essi conoscevano) culturale.

Se (come di certo è, e non marginalmente) tra il nostro pubblico vi fossero dei lavoratori e imprenditori della ristorazione, o anche chi si riconoscesse in certe, pur sempre innocue e legittime, pratiche quotidiane cui lo stesso a volte aderisce, non ne abbia a male. Nessuno si permette di generalizzare e di fare della proverbiale erba, unico fascio (non c’entra niente quello littorio, eh…); però, mi dispiace, delle tendenze sono allarmanti e vanno analizzate.

Dei fatti apparentemente irrilevanti ed episodici, mi confermano nel timore che stiamo andando, anzi ci stanno indirizzando, verso una società di straccioni griffati e digitalizzati, paganti con “carta”,  glebalizzati (termine il cui copyright è di Diego Fusaro), addestrati a scambiare delle loro stupide prassi consumistiche per segni di benessere e agiatezza.

Propongo una metafora, abbastanza calzante: è come se nella Francia (e non solo) prerivoluzionaria, dei poveri braccianti od operai scalzi e stracciati spendessero le loro paghe di due mesi per una fantastica parrucca incipriata con cui pavoneggiarsi credendosi pari del re o della regina, o del duca o della duchessa di non so che. E benedicendo la bontà e intelligenza del parrucchiere che gli aveva agevolato il folle acquisto grazie ai cascami di cotone sfilacciato, in luogo dei crini di cavallo o dei veri capelli per la parrucca stessa; o alla cipria riusata che la imbiancava. Un pessimo affare: sempre miserabili restavano e apparivano, mentre l’unico reale vantaggio rimaneva quello dell’incasso del cinico e avido coiffeur che aveva piazzato a un prezzo pur sempre assurdo una parrucca da quattro soldi. E dico miserabili non per disprezzo, ma proprio nel senso fatto proprio dall’immenso capolavoro dello Hugo: miserabile non è il povero (sempre e comunque degno di rispetto), ma costui se non si rende conto di come, moralmente e materialmente, la propria miseria vada combattuta.

Infatti, questi irreali miserables, avrebbero dovuto capire che quei loro risparmi andavano gestiti piuttosto per delle decenti calzature, o magari per la prole, e non per rincorrere sogni di nobilitazione attraverso accessori ridicoli nella loro incongruità e buoni solo a ingrassare commercianti privi di scrupoli.

Torniamo ora all’ Italia del 2023. Parrebbe proprio che la società (ovviamente non solo italiana), complice anche questa ultima ventata inflazionistica, stia lentamente ma inesorabilmente smottando o franando verso il basso. Ovviamente, ciò non riguarda le oligarchie politico-dirigenziali-finanziarie che maneggiano i  soldi “veri” ovvero redditi e rendite anche di cinquecento o settecento volte superiori a quelli del popolo…ed ecco che una narrazione del genere si salda a quella dell’esempio apparentemente bizzarro e capzioso, ambientata al tramonto del tanto esecrato ancient regime. Con la differenza che nella mia fantasiosa metafora l’aristocrazia del sangue era appunto alla frutta e incalzata dagli intellettuali illuministi; ora, i nostrani oligarchi sono nella fase di avanzata edificazione del loro ordine turbocapitalista e la quasi totalità degli intellettuali è a libro paga del consenso.

Ecco quindi, che il vecchio “ceto medio” ormai proletarizzato (anche se di prole non ne ha, anzi non ne fa,  più) si affanna ad inseguire consuetudini da “signorilità di massa” in stile anni settanta e ottanta ma a debito e rincorrendo “offerte e promozioni” spesso sulla soglia del ridicolo; e i vecchi “proletari” lo sono ancora di più. In tutto questo contesto, non può mancare la figura del sordido mercante e dell’avido oste, che con sorriso e cordialità ma in una logorante “guerra dei poveri” tenta di spennare il pollo di turno: siamo in piena commedia goldoniana!

Come altrimenti analizzare, con sbrigativa selezione:

  • L’iniziativa preferragostana  del bar di Millesimo per cui se ti porti da casa zucchero, tazzina, piattino e cucchiaino fai l’affarone dell’espresso a settanta centesimi;
  • I due euro per un “piattino di condivisione” di una porzione di trofie e una di acciughe per complessivi euro trentotto a Finale ligure;
  • I dieci centesimi (sì, dieci centesimi) per la faticosissima divisione di un toast in un esercizio comasco?

E dire che la storia del piatto di condivisione è stata segnalata da Selvaggia Lucarelli, signora dell’opinione corretta e unica e dagli interessantissimi contratti in RAI. Ma non da una sprovveduta e poveraccia coppia di pensionati o impiegati in vacanza.

Ma rinunciamoci, prendiamo atto, in sanamente fiduciosa attesa di tempi migliori, che ristoranti e bar non sono più per tutti. Come, e ci risiamo, un tempo dinanzi alle prime caffetterie o locande di lusso con gli antenati degli attuali ristoranti, il popolino si teneva alla larga, o ne era proprio tenuto. D’altronde, con uno sceicco che a Monterosso al mare (nelle Cinque terre) lascia milleottocento euro di mancia per un solo tavolo, come pensiamo di poter competere?

E la prima colazione, facciamola a casa scegliendo tra Moka ed espresso in cialde o capsule (per chi ancora non è soggetto nella propria città, con la raccolta differenziata, a una certosina dissezione e differenziazione di quelle). Evitiamo, appena arrivati sul posto di lavoro, di “andare a fare colazione”: non è più roba per il popolo.

A. Martino  

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