AGOSTO 1944, FIRENZE “LIBERATA”: LA VENDETTA SU RAGAZZINI IN CAMICIA NERA CORAGGIOSI DINANZI ALLA MORTE FINO ALLA SPAVALDERIA

La “liberazione” di Firenze nell’agosto 1944, dal punto di vista militare, vide una attività di giovanissimi franchi tiratori (o cecchini, curioso temine che risale alla prima guerra mondiale per indicare i franchi tiratori austriaci indicandoli con una specie di vezzeggiativo del nome del vecchio Francesco Giuseppe). Seppero coordinarsi bene con i tedeschi (con la grande professionalità dei paracadutisti), e provocarono non poche perdite sia agli americani che soprattutto, ai partigiani comprensibilmente meno preparati a certe tecniche militari.

Questi ragazzi (e qualche ragazza pure, credo), sapevano di andare incontro a morte quasi certa salvo fuga rocambolesca all’ultimo momento: l’entrata dello zio Sam e sodali nella città di Dante e Brunelleschi era certa, e quando il cecchino si trova dalla parte soccombente, si sa, o è abbattuto da un bravo controcecchino, o è catturato da un nemico abbastanza innervosito dall’aver fatto la parte del proverbiale piccione almeno potenzialmente fino a qualche minuto prima. Figuriamoci poi, se infuria anche una guerra civile. In sostanza, i giovani e giovanissimi fascisti concittadini di Alessandro Pavolini si sacrificarono per l’ordinato ripiegamento delle forze tedesche e repubblicano-fasciste

Come vedremo in questa tremenda testimonianza di Curzio Malaparte nel suo romanzo di grande successo La pelle, un alleato poteva avere pietà per un ragazzino (che forse non aveva fatto neppure il cecchino), da un partigiano ciò non si poteva aspettare. Anche se quel gesto di tentata grazia all’ultimo momento da parte dell’americano mi irrita piuttosto, come mi irrita l’atteggiamento generale di Malaparte autonarratosi ne La pelle, quale cagnolino scodinzolante e curiosante nella catastrofe della sua patria al seguito del vincitore. Ecco il brano tratto dal romanzo che ebbe la prima edizione nel 1949.

A.Martino

    “…..I ragazzi seduti sui gradini di S. Maria Novella, la piccola folla di curiosi raccolta intorno all’obelisco, l’ufficiale partigiano a cavalcioni dello sgabello ai piedi della scalinata della chiesa, coi gomiti appoggiati sul tavolino di ferro preso a qualche caffè della piazza, la squadra di giovani partigiani della divisione comunista “ Potente “, armati di mitra e allineati sul sagrato davanti ai cadaveri distesi alla rinfusa l’uno sull’altro, parevano dipinti da Masaccio nell’intonaco dell’aria grigia. Illuminati a picco dalla luce di gesso sporco che cadeva dal cielo nuvoloso, tutti tacevano, immoti, il viso rivolto tutti dalla stessa parte. Un filo di sangue colava giù per gli scalini di marmo.

   I fascisti seduti sulla gradinata della chiesa erano ragazzi di quindici o sedici anni, dai capelli liberi sulla fronte alta, gli occhi neri e vivi nel lungo volto pallido. Il più giovane, vestito di una maglia nera e di un paio di calzoni corti, che gli lasciavano nude le gambe dagli stinchi magri, era quasi un bambino.

   C’era anche una ragazza fra loro: giovanissima, nera d’occhi, e dai capelli, sciolti sulle spalle, di quel biondo scuro che s’incontra spesso in Toscana fra le donne del popolo, sedeva col viso riverso, mirando le nuvole d’estate sui tetti di Firenze lustri di pioggia, quel cielo pesante e gessoso, e qua e là screpolato, simile ai cieli del Masaccio negli affreschi del Carmine.

   Quando avemmo udito gli spari, eravamo a metà via della Scala, presso gli Orti Oricellari. Sboccati sulla piazza, eravamo andati a fermarci ai piedi della gradinata di Santa Maria Novella, alle spalle dell’ufficiale partigiano seduto davanti al tavolino di ferro.

   Al cigolio dei freni delle due jeep, l’ufficiale non si mosse, non si voltò. Ma dopo un istante tese il dito verso uno di quei ragazzi, e disse:

   – Tocca a te. Come ti chiami?

   – Oggi tocca a me – disse il ragazzo alzandosi – ma un giorno o laltro toccherà a lei.

   – Come ti chiami?

   – Mi chiamo come mi pare… 

   –  O che gli rispondi a fare a quel muso di bischero, gli disse un suo compagno seduto accanto a lui.

   – Gli rispondo per insegnargli l’educazione, a quel coso – rispose il ragazzo, asciugandosi col dorso della mano la fronte madida di sudore.  Era pallido, e gli tremavano le labbra. Ma rideva, con aria spavalda guardando fisso l’ufficiale partigiano. 

   A un tratto i ragazzi presero a parlar fra loro ridendo.

   Parlavano con l’accento popolano di San Frediano,  di Santa Croce, di Palazzolo.

   L’ufficiale partigiano alzò la testa e disse:

   – Fa presto. Non mi far perdere tempo. Tocca a te.

   – Se gli è per non farle perdere tempo – disse il ragazzo con voce di scherno – mi sbrigo subito –

   E scavalcati i compagni andò a mettersi davanti ai partigiani armati di mitra, accanto al mucchio di cadaveri, proprio in mezzo alla pozza di sangue che si allargava sul pavimento di marmo del sagrato.

   – Bada di non sporcarti le scarpe ! – gli gridò uno dei suoi compagni, e tutti si misero a ridere.

   – Jack e io saltammo giù dalla jeep.

   – Stop! – urlò Jack.

   Ma in quell’istante il ragazzo gridò: – Viva Mussolini ! – e cadde crivellato di colpi……”

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