HAFTAR, CON IL RIFIUTO DEI SETTE PUNTI PROPOSTI DA PUTIN, SI E’ INFILATO IL CAPPIO AL COLLO, MA L’ITALIA, STANTE COSI’ LE COSE, AHIME’, NON E’ MESSA MEGLIO.

I sodali del partito degli antirussi che gufava affinché gli accordi di Mosca saltassero avranno avuto senz’altro un’”erezione” momentanea nel sapere che il Generale Haftar, lasciata la Russia per una pausa di riflessione, all’indomani aveva deciso di non sottoscrivere i sette punti proposti da Putin alle parti e che, paradossalmente, erano stati invece firmati proprio dal rivale del Governo di Tobruk, il Presidente Fayez al-Serraj.

Costoro se credono che un simile evento possa mettere fine alla linea infinita di successi che in politica estera, il Cremlino, nell’ultimo anno, ha conseguito in Medio Oriente, si sbagliano di grosso!

Semmai, il rifiuto di Haftar, incredibilmente, ne ha praticamente segnato la propria morte politica.

In passato, infatti, le avanzate e gli stop del Maresciallo della Cirenaica, sono sempre e solo stati legati all’appoggio aperto o meno, della Federazione Russa: in altre parole anche se i cirenaici potessero continuare a contare sull’appoggio dei francesi, degli egiziani, degli algerini e degli Emirati Arabi, nulla potrebbero contro la volontà russa di pacificare la regione.

In altri termini, con il suo gesto, Haftar ha servito con un assist il suo avversario ormai alle corde donandogli, non solo nuovo ossigeno, ma, addirittura, una vittoria inaspettata.

E, in questo strano valzer delle diplomazie, come al solito, l’altro Paese che è rimasto ugualmente all’angolo è il nostro.

Italia che – anziché sfruttare il passo falso del Maresciallo libico inviando, quindi, truppe corazzate, aerei e navi da guerra, nei territori controllati ancora da Tripoli – continua ad invocare un Europa mai esistita e si rifiuta, di fatto, di svolgere il proprio ruolo nel Mediterraneo in nome di un pacifismo ideologico e dei conti di bilancio che secondo Bruxelles tornerebbero mai.

Ma insomma! Quando capiremo che la pace s’impone con il proprio peso militare? In fondo, lo dicevano anche gli antichi romani: “si vis pacem, para bellum”; altro che preoccuparci se le nostre truppe potranno muoversi, in sicurezza, con un mandato certo.

Chiedete ad Erdogan se si pone questa domanda e se ciò non bastasse sappiate anche che l’esercito turco, nella  stragrande maggioranza dei suoi 800 mila uomini, è formato da ragazzi sottoposti alla cosiddetta coscrizione obbligatoria, meglio nota, qui in Italia, con il nome di “leva”.

Ora, se Istanbul fa parte della NATO ed ha un simile esercito come lo ha, prima di lui, la Grecia la Norvegia, la Danimarca, così come le neutrali Svizzera, Austria e Finlandia o gli agguerriti Israele,  Cina e Iran, non si capisce perché l’Italia, incaprettata così com’è con i propri problemi finanziari, non possa reintrodurre, “seriamente”, questo servizio.

Sottolineo il termine seriamente perché il giornale che mi onoro di dirigere è fortemente contrario ad ogni riapertura della leva obbligatoria se essa andrà nella direzione che si sta prospettando, cioè in quella di un periodo di tempo in cui i nostri giovani dovrebbero apprendere delle norme di educazione civica unitamente a dei buoni rudimenti di protezione civile: no grazie! La Patria, per chi non lo avesse ancora capito, ha bisogno, ora più che mai, di un esercito di popolo con il pugnale tra i denti, non dei fiori nelle canne dei fucili, questa immagine la lasciamo volentieri ai sognatori ed agli illusi.

Ma tornando alla questione libica, nel mentre che non venga reintrodotto il servizio militare obbligatorio, l’Italia una cosa sola può fare se non vuole perdere anche le concessioni dell’ENI in quel di Tripolitania: rischierare completamente le truppe oggi utilizzate in IRAQ in Libia aggiungendo ad esse anche i nostri battaglioni dotati dei famigerati carri “Ariete” per arrivare, il prima possibile, la dove un tempo vi era l’Arco dei Fileni e li attendere l’arrivo dei russi.

Lorenzo Valloreja

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