NEL BICENTENARIO DELLA SUA MORTE, L’ ORTIS ONORA IN NAPOLEONE BONAPARTE IL NOSTRO PRIMO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E IL NOSTRO PRIMO RE.

Il 5 maggio 1821, prigioniero militare più illustre nella storia britannica, il “generale Bonaparte” muore nella remota Sant’ Elena, tuttora sperduto possedimento di Sua Maestà britannica piazzato nell’ Oceano Atlantico fra le coste sudamericane e quelle africane.

La sua parabola terrena è unica: rampollo di “piccola nobiltà” corsa o piuttosto più semplicemente di famiglia benestante, francese per caso essendo la Corsica acquisita alla Corona francese qualche anno prima e per vera convinzione solo quando capisce che il suo futuro è sul continente; oscuro ufficiale di artiglieria vincitore di cento battaglie, commissario liquidatore della rivoluzione francese per poi farsi non nuovo re ma addirittura imperatore. Nulla sembra fermarlo, ma alla fine il suo arroccamento continentale gli sarà fatale: con la flotta ormai inesistente e la Louisiana (ben più vasta dell’attuale stato USA) venduta agli americani per la miseria di un centinaio di sacchi di dollari d’ oro, la guerriglia spagnola prima e soprattutto la disastrosa invasione della Russia con la ritirata in un inferno bianco, gli saranno fatali.

Reuccio dell’isola d’ Elba (terra non a caso italiana), quasi scontatamente, tenta la riscossa ma a Waterloo (battaglia di più giorni, imponente e sanguinosissima ormai epica più che storica), la fortuna gli volta le spalle definitivamente. Per quasi sei anni, contemplando le immensità oceaniche, di sicuro rimpiangerà lo stupendo arcipelago toscano a qualche ora di veliero dalla sua Corsica.

Ma cosa hanno rappresentato, per noi italiani, Bonaparte, il bonapartismo, il “sistema imperiale”?

Più di quanto si pensi, e di quanto comunemente si sia portati ad ammettere sia da “destra” che da “sinistra”. D’ altronde, a Roma abbiamo il più grande museo napoleonico fuori dalla Francia.

Sicuramente, in negativo, l’usurpazione e la cleptomania d’arte e non solo fatte sistema, l’ irruzione dell’anticlericalismo ma non fino al laicismo di stato, l’incredibile arroganza e fantasia nel ridefinire non solo assetti dinastici ma persino confini degli stati e identità nazionali (Roma seconda capitale dell’ Impero francese come Amburgo suo porto primario). Ma anche, il porre le basi di tutto ciò su cui il nostro vivere consociato era fondato almeno fino a venti anni fa: la società borghese giusnaturalista, illuminista e di diritto di matrice romana. Da questo punto di vista, non è per nulla vero che con la Restaurazione, degli ottusi monarchi ancora in parrucca incipriata, “riportarono indietro le lancette dell’orologio della Storia”.

Le restaurazioni assolute non esistono mai, e del bonapartismo sopravvisse tutto o quasi del ritenuto in fondo positivo e modernizzante. Citiamone qualcosa, a mero titolo di esempio.

Innanzitutto, tanto il concetto di una Repubblica italiana che di un Regno d’ Italia: Napoleone fu non solo Primo console e poi Imperatore dei francesi, ma anche Presidente della Repubblica italiana e poi Re d’ Italia con tanto di Corona Ferrea realmente indossata e puntigliosamente esibita in stampe e ritratti. Chi indica Enrico De Nicola come primo presidente e Vittorio Emanuele II come primo re, formalmente parlando, sbaglia.

Il sistema monetario decimale basato su oro e argento (sopravvisse in Francia e Piemonte, ridandoci quindi la lira italiana da noi sovranisti tanto pianta).

La codificazione civile dell’ assetto borghese ed economicistico scaturente dalla Rivoluzione con il concetto almeno formale di assoluta eguaglianza dell’individuo e definitiva abolizione dei diritti feudali, come già detto; e l’abolizione di tortura e pene di mero supplizio da quella penale. Di certo, appare eccessiva la penalizzazione in favore del patriarcato romanista della donna, la cui migliore condizione a volte era paradossalmente, quella di orfana o vedova.

Il divorzio e il matrimonio civile, quelli sì prontamente cassati dal ritorno delle cattolicissime monarchie legittime, in Italia reintrodotti rispettivamente oltre un secolo e mezzo dopo e all’ Unità, sempre con laceranti divisioni.

Il concetto di residenza anagrafica, ancorato a via e numero civico.

La rivoluzione anche nel mondo dei trapassati, con le sepolture solo cimiteriali e sotto l’autorità comunale con il coinvolgimento dei vescovi. Si leggano I Sepolcri di Ugo Foscolo, che non possiamo non considerare supremo ispiratore di questo foglio militante.

Il servizio militare di leva obbligatorio, fucina sì di “carne da cannone” ma anche di distacco dal proprio campanile, di ridimensionamento dei dialetti e dell’analfabetismo rurale. In esso i militari italici o napoletani, o pseudofrancesi conobbero terre di cui ignoravano l’ esistenza e indossarono, essi solitamente scalzi e vestiti di stracci, bellissime uniformi eleganti e sgargianti.

Le città italiane conobbero degli abbozzi di piano regolatore, ovunque si promosse la costruzione di nuclei abitativi oltre gli antichi borghi. Il Meridione è pieno, tuttora, di quartieri ufficialmente definiti borgo murattiano.

Solo la Sicilia e la Sardegna non conobbero il sistema bonapartista, e gli sviluppi storici e sociali successivi ne risentirono.

A parte il Regno d’ Italia dal cuore lombardo-veneto con i corollari di Marche ed Emilia (poca cosa geograficamente ma non economicamente, quindi) la nostra amata Penisola sotto il breve ma sconvolgente sistema bonapartista conobbe, tralasciando la piccola signoria toscana della sorella Elisa, un’assurda bulimia annessionistica del bonapartismo: Torino, Genova, Perugia, come visto persino la stessa Roma…tutti capoluoghi di dipartimenti “francesi”.

Il regno di Napoli, archiviata l’ancor più traumatica esperienza repubblicana del 1799, conobbe l’inserimento nel sistema bonapartista dal 1806 al 1808 con re Giuseppe, fratello del grande Corso poi “trasferito” in Spagna come un prefetto e con pessimi risultati. E soprattutto il regno del cognato Gioacchino Murat, tra i migliori generali napoleonici che tra la prima abdicazione del 1814 e i Cento giorni dopo la fuga dall’ Elba tenterà, dopo un balletto diplomatico tra austriaci e inglesi, di conservare la corona napoletana. Scaricato il grande cognato nel 1814 addirittura volgendogli contro l’esercito napoletano, romperà gli indugi nel 1815 riabbracciando, pur nella rabbiosa indifferenza di Napoleone, la sua causa assieme a quella unitaria italiana. Il suo proclama “di Rimini”, pur essendo stato redatto, sembra, nella piazzaforte di Pescara, è il primo atto di iniziativa unitaria e patriottica italiana.

Murat non fu fortunato, perse guerra e trono a Tolentino contro gli austriaci e dopo qualche mese la vita stessa, sperando di emulare il suo ex comandante; sbarcò sulle coste calabre incontrandovi la tragica ostilità degli ex sudditi e la mancanza di misericordia del Borbone.

Significativamente, le forse a più pregnanti pagine su Napoleone in assoluto, a mio avviso, sono state scritte da due giganti della letteratura non francesi: il russo Lev Tolstoy in Guerra e pace, e il nostro Alessandro Manzoni nella ode 5 maggio. Una dimostrazione dell’universalità della valenza di quegli anni segnati da quell’ uomo, ripeto più epica che storica.

Le ombre e le macchie sono tante. Ad esempio, Napoleone credeva di rivitalizzare il principio monarchico, ma ancorandolo non più alla Grazia di Dio e alla legittimità bensì alla forza delle baionette, lo rese ancora più odioso. Traditore per i rivoluzionari, usurpatore pacchiano con le sue autoincoronazioni di Parigi e Milano lui e i suoi satrapi, per i veri monarchici.

Eppure, in quei pochi ma indimenticabili anni l’Europa fu quasi tutta unita non dalla burocrazia e dalla finanza, ma dalla forza della Gloria e da un sogno di grandezza.

A. Martino    

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