ZACHAR PRILEPIN ULTIMO OBIETTIVO DEL TIRO AL BERSAGLIO CONTRO GLI INTELLETTUALI RUSSI

Pare che Zachar Prilepin (vittima di un attentato di matrice ucraina, almeno secondo le autorità russe) la scorsa settimana, benché gravemente ferito, sia fuori pericolo come sua figlia. Purtroppo, il suo autista è perito.

Qui, voglio solo rimarcare (non volendo trarre alcuna conclusione, fate voi) la strana padronanza terroristica in Russia (non dimentichiamo nemmeno i tanti sabotaggi di strutture energetiche) contrastante con la velocità nell’individuazione dei responsabili e con la presunta natura poliziesca del regime. Azioni analoghe sembrano inesistenti sul territorio ucraino non interessato dal conflitto, suggerendo l’immagine di una intelligence e polizia molto più efficaci e affidabili tanto in trasferta quanto nella tutela interna.

Ma non è questo il punto. E’ ormai evidente che gli intellettuali russi, se non putiniani quanto meno portatori di visioni assolutamente contrastanti con i dogmi occidentalisti e sostenitori della necessità dell’attuale collisione geopolitica attorno al fiume Dnipro, sono considerati pericolosissimi, “cattivi maestri” globali, avversari semplicemente da eliminare; ultima fantastica definizione quella de Il Messaggero (“influencer dell’orrore).

Tra Kiev e le capitali occidentali, si teme assai più un romanziere (Prilepin), un giornalista e blogger (Tatarsky), o dei filosofi (Dugin probabilmente vero bersaglio o la sua sfortunata, mai abbastanza compianta figlia).

Pare che ormai la cesura tra il cosiddetto Occidente e la Russia sia sempre più antropologica e culturale; qui esangui professorini o predicatorie virago ingredienti delle pappine propinate dalle grandi case editrici, divulgatori di immaginario e dottrine politicamente corrette e spiritualmente corrotte, che non farebbero “del male a una mosca, la violenza mai etc.”; lì uomini e donne in un certo senso dannunziani che nella realtà concreta del proprio tempo si immergono direi fino all’apnea non disdegnando attività militari o paramilitari.

Zachar Prilepin è un intellettuale di assoluto rilievo, autore di diverse opere tradotte anche in italiano (una fra tutte, Patologie). In questa intervista ormai molto datata (2011) a MANGIALIBRI Dal 2005 mai una dieta, per la cui attingibilità qui ringraziamo, emerge una personalità intellettualmente forte e culturalmente interessante, che non asce ffatto putiniana. E’ comprensibile che a Kiev si temano più soggetti del genere, che generali o politici.

A 36 anni, Zachar Prilepin vanta già un sostanzioso bagaglio di esperienze. Ha preso parte alla seconda guerra in Cecenia, arruolato negli OMON, i corpi speciali russi. Engagé fino al midollo contro il governo di Putin, lo aspettavamo l’11 dicembre alla fiera «Più Libri, Più Liberi». Ma il clima di agitazione dovuto ai presunti brogli elettorali e le proteste in Piazza Bolotnaja, nel centro di Mosca, non gli hanno permesso di raggiungere i suoi «amici italiani», come ci ha scritto, aggiungendo: «Ho qualche problema con le autorità russe». All’indomani delle elezioni presidenziali del 4 marzo, quelle in cui un commosso Putin (o era colpa del vento?) conferma la sua carica fino al 2018 (più o meno quanto quella di Stalin), arriva finalmente l’occasione buona per l’intervista.

Non c’è contraddizione tra la tua lunga permanenza nell’esercito e il dissenso al potere attuale?
Ho lavorato in speciali unità poliziesche, non nell’esercito: è tutta un’altra cosa. Inoltre, in seguito ho lavorato per qualche tempo come specialista di tecnologie politiche nelle strutture del governo regionale. Adesso, la mia critica verso il potere non è infondata. So perfettamente, e dal di dentro, che il sistema è vile e disgustoso.

Come si collega la tua esperienza di veterano alla tua produzione letteraria e alla tua vita?
Una volta, Hemingway disse che le persone migliori le aveva incontrate in guerra. In un certo senso, è vero. La guerra esaspera ogni sentimento. Un codardo o un mascalzone si manifestano inevitabilmente in tutto il loro squallore, ma la vigliaccheria non manca neanche qui, nel mondo. E sono carenti invece l’integrità, lo spirito di sacrificio, l’abnegazione.  Non è infatti strano che le qualità umane più sorprendenti e, oserei dire, le più radiose, si possano trovare solo nelle situazioni critiche e tragiche. Molto brutalmente, quando si uccide. Credo non sia un caso che molti scrittori russi abbiano combattuto: Lermontov, Lev Tolstoj, Nikolaj Gumilëv, Solženicyn… Puškin si è battuto in decine di duelli, Dostoevskij venne quasi fucilato. Il risultato è l’imprudenza, nessuno pensa al proprio “destino” – ma che qualcuno mi smentisca: nessuno dei suddetti sarebbe diventato quello che è diventato se non avesse visto quello che tutti hanno visto. Dostoevskij, infatti, una volta notò che i russi vanno in guerra non per uccidere, ma per immolarsi. Ora, potete accogliere queste parole con scetticismo, ma io ritengo che valga la pena saperlo. Per quanto mi riguarda, sono arrivato a conoscere un po’ di più l’uomo: la guerra fa risparmiare molto tempo, nel senso che ti fa accumulare esperienze. Ma a volte si può risparmiare tempo fino ad annullarlo, così che poi questa esperienza non la puoi più applicare in nessun caso. Perché non esisti più.

In un’intervista hai affermato che «la Russia è interessata solo a ciò che è produttivo, da ciò che fornisce un profitto o una rendita». Eppure in Patologie sopravvive un briciolo di umanità e speranza, persino durante la terribile guerra cecena. Quanto c’è di realistico in questo?
In quell’intervista mi riferivo al potere. Alle autorità interessa solo ciò che consente un profitto, mentre in Patologie ho scritto di semplici ragazzotti russi di provincia che prendono parte alla guerra, guerra di cui non capiscono completamente il senso, e da cui non ricevono alcun profitto. Resta da capire quale vettore in Russia vincerà: il mercantilismo e l’egoistica razionalità glaciale del potere, oppure quelle notevoli qualità umane del carattere russo, che hanno preservato la nostra terra per tutto questo tempo, e che sono ancora presenti nei russi.

Patologie mi ha ricordato “Aleksandra”, uno degli ultimi film del regista Sokurov. Pensi che il libro e il film abbiano qualcosa in comune?
Forse sì. per il lettore occidentale il soldato russo e l’ufficiale ceceno sono spesso soltanto assassino e criminale di guerra. Ma la situazione è un po’ più complessa. C’erano assassini e criminali di guerra sia nella fazione russa che in quella cecena. La domanda è: quanto riusciamo a rimanere uomini dopo. E mi sembra che ci riusciamo ancora. Ho degli amici russi che combattevano là, contro me e i miei compagni. Io li ho perdonati tutti. Spero che si sforzeranno di perdonare anche noi. In “Aleksandra” c’è proprio un riferimento a questo: sono le donne per prime che cercano di perdonarsi l’un l’altra. La vita è mostruosa e crudele. Noi viviamo questa vita. Ma sarebbe meglio se non ne prolungassimo il dolore e l’odio. Perché altrimenti la vita si trasforma in un inferno.

Qual è lo scopo della letteratura, secondo te?
La letteratura non è più grande della vita. Essa condensa gli avvenimenti della vita a un livello tale, che prende forma un certo geroglifico, la chiave dell’essere, che ci permette di capire le cose più importanti e più semplici: che cos’è la felicità? Che cos’è l’amore? Dio ci ascolta? La letteratura è un infinito tentativo di osservare e rappresentare le azioni di Dio, il suo sorriso e la sua tristezza.

Qual è il tuo punto di vista sulla letteratura russa contemporanea?
Gli scrittori di nuova generazione – quelli degli anni zero, sono decisamente delusi dei risultati del progetto «liberale». Non dico che in Russia la maggioranza dei letterati siano «sinistroidi», ma è un fatto che da noi praticamente non esistono scrittori che difendono i valori della borghesia. In Russia non è più di moda regolare i conti con il potere sovietico e mostrare al mondo le proprie piaghe. Adesso qui si scrivono molti testi forti, aggressivi ed efficaci.

Cosa apprezzi di più quando vieni in Italia?
Gli italiani. Non ho girato molto il Paese, ma ho incontrato molte persone. Gli italiani sono molto aperti, affascinanti, espressivi. Sono per certi versi simili ai russi – molto di più rispetto, per esempio, ai francesi o agli inglesi. Gli italiani, per esempio, non sono molto snob, possiedono una buona dose di spericolatezza, come l’abbiamo noi (a volte al limite dell’incoscienza) e di generosità. E un notevole senso dell’umorismo. Inoltre, io ho letto molta letteratura italiana e visto molti film italiani. È un’ottima inoculazione per amare l’Italia. Per non parlare del fatto che ho anche letto la geniale Divina Commedia e le novelle magiche del Rinascimento italiano, e nutro un antico interesse anche per D’Annunzio, Marinetti e Pasolini. Quando ero più giovane mi piacevano molto Dino Buzzati e Alberto Moravia. A proposito: è incredibile, ma quello che succede nel libro di Niccolò Ammaniti Come Dio comanda è una storia tipicamente russa. Se soltanto si trasformassero i nomi in russo non ci sarebbe nessuna differenza. Adesso sto leggendo l’ultimo romanzo di Eco. Qui, è vero, l’azione non si svolge in Italia, ma per me è comunque un romanzo potente”.

A. Martino

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