A ISTANBUL LA STORIA DÀ TORTO E DÀ RAGIONE

“Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere… La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano. La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.”
Così cantava De Gregori in alcune delle sue strofe più celebri. E da grande cantautore qual è, esprimeva una verità assoluta che da anni mi trovo a predicare — inascoltato — dalle pagine di questo giornale, così come nelle trasmissioni che hanno avuto il coraggio di darmi voce.
Ma niente! I governanti italiani non ascoltano gli analisti oscuri ma senzienti, come il sottoscritto. No, di certo! Qui i nostri leader preferiscono affidarsi ai soliti noti, ai soliti tromboni, perché oggi contano più l’immagine e la notorietà della sostanza.
Così accade, in modo del tutto inaspettato, che questo giovedì, a Istanbul, il Presidente Zelensky e il Presidente Putin si incontrino — per la prima volta da quel fatidico 24 febbraio 2022 — per discutere di pace.
Sì, ma non da soli: ci sarà anche Donald Trump.
E come potrebbe mancare? Proprio lui, che voleva far firmare la pace entro una settimana dal suo insediamento, e che oggi sembra aver ingranato la marcia giusta — tanto in Ucraina quanto a Gaza e, perché no, anche nei rapporti con l’Iran.
Ma il grande merito va riconosciuto a Recep Tayyip Erdoğan, che ancora una volta si conferma il più grande stratega della storia recente turca.
E l’Italia?
Nulla. Non tocca palla.
Altro che “pontieri”. Altro che “rapporto
privilegiato con gli USA”, e altre formule da convegno.
D’altronde, chi è causa del proprio male,
pianga sé stesso.
Già dai tempi del
Governo Draghi ho continuato a chiedere, invano, che l’Italia vestisse i panni
del mediatore.
Abbiamo il Vaticano. Abbiamo il Santo Padre — prima Francesco, ora Leone XIV —
e abbiamo un intero popolo che questa
guerra non la vuole.
Ci saremmo potuti
offrire per aiutare i bambini, portare
ospedali da campo, medicinali, beni di prima necessità.
E quando ci avessero chiesto armi o supporto militare, avremmo potuto
rispondere con un fermo ma educato: no,
grazie, non è possibile. E le ragioni sarebbero state chiare,
inequivocabili.
Così facendo, avremmo fatto meglio della Turchia, che pure ha fornito droni a Kiev. Avremmo potuto proporci noi come mediatori, con tutti i crismi del caso.
Anche perché Putin, fino alla morte di Berlusconi — e anche oltre — ha sempre manifestato affetto e simpatia per l’Italia.
Lo dimostra anche il caso degli impianti Ariston in Russia, tornati da pochi mesi alla piena disponibilità dei legittimi proprietari.
Avremmo potuto. E invece, niente.
Siamo stati più realisti del re, ma solo se questo nostro zelo bellicoso non si incrociava con la medesima volontà di quel “simpaticone” di Macron.
Così, la premier Meloni, fiera e soddisfatta per il vertice di Washington di un mese fa — in cui ha strappato a Trump la promessa di una visita ufficiale in Italia — ha deciso di non essere presente:
- né al momento del congedo in San Pietro per i funerali di Papa Bergoglio (nonostante l’Italia fosse Paese ospitante);
- né fisicamente a Kiev il 10 maggio, insieme ai “volenterosi” Macron, Merz, Starmer e Tusk;
- né il 9 maggio a Mosca, con Robert Fico e Aleksandar Vučić, alla parata dell’80° anniversario della Vittoria Patriottica.
Eppure, in quest’ultimo frangente, si sarebbe potuta cogliere un’occasione storica: fare da cerniera tra Stati Uniti e Russia.
Invece, si è preferito restare allineati a Ursula von der Leyen — ormai superata persino da Francia, Germania e Polonia — e a Benjamin Netanyahu, anestetizzato da Trump, che nel frattempo ha incassato, senza nemmeno informare Israele, ben tre vittorie:
- Il rilascio da parte di Hamas dell’ultimo prigioniero israelo-statunitense, senza cerimonia militare;
- Il cessate il fuoco con i ribelli Houthi dello Yemen, mediato dall’Oman;
- La riapertura dei negoziati con l’Iran per un nuovo accordo sul nucleare civile.
E noi?
Noi siamo rimasti incagliati con due
relitti della politica mondiale, solo per coltivare l’illusione di
poter partecipare alla ricostruzione
dell’Ucraina una volta cessato il conflitto.
Ma lo sanno anche i sampietrini che alla fine l’Ucraina la ricostruiranno solo tre Paesi: Stati Uniti, Cina e Russia.
E Zelensky? Perché proprio adesso ha deciso di incontrare Putin?
C’è chi dice che
voglia stanare il Presidente russo agli
occhi dell’opinione pubblica internazionale.
C’è chi sostiene che l’Ucraina sia ormai prossima
al collasso, e che il passo sia stato imposto da un riavvicinamento a Washington.
La verità, come
spesso accade, sta nel mezzo:
l’Ucraina è in grande difficoltà, schiacciata da promesse europee non mantenute
e da arsenali vuoti.
Ma anche la Russia ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane.
Entrambe le parti
vedono nella finestra temporale della
presidenza Trump un’opportunità da non perdere.
E Trump non ha alcun interesse a
proseguire una guerra che non serve più nemmeno a lui.
Giovedì potrebbe essere la volta buona.
Ma i frutti di questa pace saranno molto amari per chi, fino all’ultimo, ha sparso
fango sulla Russia.
D’altronde, come cantava De Gregori: “la
storia dà torto e dà ragione”.
Lorenzo Valloreja
Lascia un commento