CON LA PANDEMIA L’ITALIA NON E’ PIU’ UN PAESE PER IMPRENDITORI ITALIANI.

E’ ormai da un lasso di tempo necessario al felice compimento di una gravidanza (nove mesi) che sosteniamo le irreparabili conseguenze del Nuovo Ordine tecnico-sanitarista; prima potenziali, ora sempre più reali. E sinceramente, sono riflessioni di una certa inquietudine, che inevitabilmente offuscano lo spirito natalizio (o almeno, quanto di esso rimane derubricabile a innocua sagra consumistica e dei buoni sentimenti, lasciando fuori dalla porta il Festeggiato).

Ed è opportuno, alla luce delle ulteriori limitazioni imposte (o pene inflitte) proprio per il periodo natalizio, in particolare a sventurati settori quali quello della ristorazione, integrare le mie riflessioni in PERCHE’ LA DITTATURA SANITARIA E CONTE CE L’ HANNO TANTO CON PALESTRE, CINEMATOGRAFI O RISTORANTI? dello scorso 29 ottobre. E’ infatti ormai chiaro, a mio modesto avviso, che la contrarietà culturale a questa o quella umana attività, si accompagna anzi si rafforza con la sostanziale debolezza economica di questa o di quella categoria. E che ormai sta venendo fuori la fisionomia di chi, ai tempi del “grande reset”, conta davvero.

Sarò più chiaro, insomma. Nella logica del globalismo finanziario e del Pensiero Unico, di cui il sanitarismo dovrebbe essere l’ultima definitiva e micidiale carta da giocarsi al tavolo della Storia (da terminare, questa, una volta per tutte (qui sì, è una follia irrealizzabile), “piccolo” non è affatto “bello”. Anzi, è da miserabili agli occhi di chi muove miliardi di dollari o euro di moneta fasulla, con una pressione su un mouse detta “clic”. E se tale, si appare una mina vagante, una continua fonte di piagnistei, di rivendicazioni, di flussi di voti che potrebbero abbandonarti, di sussidi da erogare.

“Distanziamento sociale” (espressione gravissima, che non abbiamo inventato noi ma loro, e che infatti si sono affrettati a ridimensionare concettualmente) con conseguente impossibilità di attività relazionali e somministrative, reali e non digito-virtuali; “nulla sarà come prima”, “cambiamento di abitudini”, ecc.; sono strumenti di edificazione di quell’ Ordine Nuovo mondialista, che finora aveva stentato sulla tabella di marcia.

La dittatura sanitaria non solo in Italia non è affatto transitoria, ma intaccherà sempre di più le libertà e quindi anche l’imprenditorialità fino alla realizzazione di un soggetto umano che questo tipo di problemi non se lo porrà proprio; gli basterà sapere che vi è chi si prende cura della propria salute, e cerca attraverso divieti e imposizioni varie di non farlo morire. Perché, ovviamente, dopo la morte nulla vi è: lo dicono gli scienziati, no? Basta al massimo una nuova generazione, ma forse anche meno; i loro argomenti sono che piaccia o no, convincenti e avvincenti per gli uomini e donne di questo tempo.

Oggi è la “variante inglese” a bilanciare un certo sollievo in vista del vaccino (e a etichettare i fautori della Brexit come untori); domani, magari, l’ Ebola potrebbe avere una micidiale mutazione…

Ma fin quando si vive, bisogna comunque campar di qualcosa in attesa del reddito universale tanto caro ai grillini e realizzato sinora solo come mancetta del reddito di cittadinanza: e allora, Great reset delle attività lavorative. In primis, del lavoro autonomo e della piccola e media imprenditoria.

Regola aurea alla base: chi non è portatore di interessi a livello di finanza e capitale globale, e chi non fattura annualmente almeno a otto zeri, è senza speranze in odine inversamente proporzionale alla sua consistenza economica. E non contano nulla in questo, associazioni di categoria o sindacali: zero più zero più zero ecc., per chi muove le fila di tutto questo come d’ altronde per la matematica, fa sempre zero!

Basti pensare all’ intera filiera del turismo e della ristorazione: l’ Italia (ma altrove non cambia molto) conta su di una miriade di piccole imprese familiari o nascenti da intraprendimenti amicali, magari fino a un anno fa floride e persino somiglianti a moderne piccole miniere d’ oro. L’ Italia era pur sempre il Paese con il più grande patrimonio artistico-culturale al mondo, non in Europa; e l’ industria della movida (questa specie di dolce vita infinita) che ha reso di ogni centro di provincia una potenziale Via Veneto se ci si sapeva fare tirava da pazzi. Tutto travolto dall’ infernale tenaglia tra la pandemia e la “decrescita felice” grilliana escogitata da chi pranzi e cene se li fa servire e cuocere a casa, da tanto di chef con berrettone bianco e cameriera con crestina e grembiule nero.

Duemila o tremila euro in tasca come farmaco eutanasiaco all’ Hotel Belvedere, o alla Pizzeria Vesuvio, o alla Trattoria da Zia Concetta, e sia strada alle grandi catene globali del fast food. E poi, si sa, un imprenditore è fisiologicamente un “moderato”: qualche migliaio di euro di “ristori”, qualche solenne “nessuno sarà dimenticato”, l’ opposizione “costruttiva e propositiva” come ulteriore farmaco eutanasiaco e il gioco è fatto.

Non vogliamo, ripeto, ulteriormente tediare proprio prima del pur sempre Santo Natale i nostri lettori e amici, e soprattutto agghiacciare di terrore economico qualcuno. Ma se in altre realtà imprenditoriali ci figuriamo il Multisala di proprietà della s.r.l. o della s.p.a. con sede sociale e fiscale a Roma o Milano o Torino o Catania invece del ristorante o della pizzeria, e Netflix o Amazon Video o Sky al posto di Mc Donald’s o Burger King, che cos’ altro volete che vi diciamo?

Resiste tra l’ altro il festival di San Remo soprattutto grazie ai suoi enormi introiti pubblicitari, ma anche per la sua televisività di regime e rassicurante per il volgo.

Totalmente travolto il teatro, resistente da anni solo grazie ai contributi statali (come d’ altronde il cinema italiano stesso): la munificenza sinistroide di stato li ha tenuti finora in piedi in un’Italia lobotomizzata e conformista, lo stato con due o tre DPCM li ha condannati a morte. Amaro e tragico epilogo sia per quella che nel Novecento fu una delle più grandi fabbriche di sogni, che per il glorioso erede dei teatri di Pompei o Taormina.

Però, ammettetelo: chi è più esplicito e radicale nell’ analisi come l’ Ortis?

A. Martino

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