DOPO 50 ANNI, RAMELLI, LA COSTITUZIONE E IL SALUTO CHE DIVIDE

Il 29 aprile 2025 è ricorso il cinquantesimo anniversario della morte di Sergio Ramelli, giovane militante del Fronte della Gioventù, che il 13 marzo 1975 fu brutalmente colpito alla testa con una chiave inglese da un gruppo di universitari di Avanguardia Operaia, studenti di medicina, mentre rientrava a casa. La sua “colpa”? Aver scritto, pochi giorni prima, un tema scolastico in cui criticava le violenze politiche e il clima d’odio alimentato dalla sinistra extraparlamentare e dalle Brigate Rosse.
Dopo 47 giorni di atroce agonia, a soli 18 anni, Sergio morì.
Durante un’assemblea d’istituto presso la sua scuola, l’Istituto Molinari di Milano, il suo tema fu discusso e attaccato pubblicamente, trasformandosi di fatto in un processo politico. E, come accadeva troppo spesso in quegli anni, quel “processo” non poteva che concludersi con una condanna a morte. Era l’epoca in cui slogan come “Fascisti, carogne, tornate nelle fogne!” o persino “Uccidere un fascista non è reato” venivano gridati senza remore. Il clima era talmente avvelenato che anche i pochi professori che provarono a difenderlo subirono pesanti intimidazioni; uno di loro si vide persino bruciare l’auto.
Dopo quel terribile pestaggio e settimane di lenta agonia in ospedale, Sergio Ramelli spirò, diventando un simbolo di resistenza per la comunità post-fascista. Una realtà che, piaccia o meno, in Italia rappresenta una fetta significativa della popolazione: non solo iscritti a movimenti di destra radicale, ma anche cittadini comuni che, nel privato delle loro case, espongono calendari del Duce, busti di Mussolini e — udite udite — seguono la serie “M”, non per criticarla, ma perché sinceramente attratti da quella storia.
Del resto, se così non fosse, non si spiegherebbe perché ogni documentario sul fascismo faccia ascolti record, o perché in tutta la Penisola sia più facile trovare una bottiglia di vino rosso con l’effigie del Duce sull’etichetta piuttosto che con quella di altri personaggi storici italiani. Né si capirebbe il successo sui social, TikTok in primis, di certi “fascisti folcloristici” che raccolgono migliaia di follower.
La verità è semplice: il fascismo del Terzo millennio, annacquato da settant’anni di pace e democrazia, non è più portatore di dittatura né di violenza, ma è più vivo che mai. E poiché coinvolge una parte consistente della popolazione, ha diritto a esistere — al di là di quanto sostengano certi interpreti della Costituzione. Purché resti nei limiti della legalità e non degeneri in sovversione, va rispettato e tollerato.
Non stupisce quindi che, da qualche anno, proprio in occasione dell’anniversario della sua morte, a Milano si svolga — e con partecipazione crescente — la tradizionale cerimonia del Presente: un rituale ormai consolidato nella comunità post-fascista, in cui, alla chiamata del leader del corteo che pronuncia il nome del “camerata defunto”, si risponde all’unisono “PRESENTE!”, accompagnando le parole con il saluto romano.
Per quanto tale usanza possa risultare deprecabile agli occhi degli antifascisti, ritengo vada rispettata e tollerata, in quanto espressione pacifica di una comunità in lutto, numericamente rilevante nel panorama italiano.
Allo stesso modo, non solo devono essere legalmente garantite, ma ancor più naturalmente rispettate, tutte le commemorazioni dedicate ai caduti della Resistenza e della lotta al fascismo. Perché il diritto al ricordo e alla commemorazione dei propri morti è universale, e non appartiene a una sola parte politica.
Solo una mente malata può immaginare di disturbare la
commemorazione di un avversario politico.
Non è questione di democrazia. È questione di buon senso ed educazione. I
caduti sono sacri per chiunque.
Questa è, in fondo, la differenza tra noi e le bestie.
Eppure, c’è chi, blaterando di democrazia e Costituzione, dimentica tutto questo e non trova di meglio che disturbare chi, pacificamente, sta commemorando Ramelli. Così è accaduto che, quest’anno, dopo una silenziosa e ordinata fiaccolata in cui 1410 persone, disposte in 282 file da 5, hanno sfilato da piazza Gorini a via Paladini per raggiungere gli altri novemila partecipanti radunati presso il murales che ricorda Ramelli, un contestatore abbia ben pensato di diffondere a tutto volume, da un appartamento affacciato sulla scena, la canzone Bella Ciao.
Il risultato? Tensione e malumore, fortunatamente non degenerati.
Ora, Bella Ciao è certamente un inno antifascista e un pezzo importante della storia italiana.
Ma aveva senso intonarla in quell’occasione?
La risposta è no.
Non era quello il luogo né il momento. Anche perché Ramelli, fino a prova contraria, fu ucciso proprio da chi — negli anni Settanta — quella canzone la cantava contro i giovani del Movimento Sociale. In quel contesto, quindi, quella musica non fu altro che una provocazione deliberata, sotto ogni punto di vista.
Cosa voglio dire, allora?
Che in una democrazia compiuta, come quella italiana, tutti
devono avere il diritto di commemorare i propri caduti: post-fascisti,
comunisti, monarchici, garibaldini, neo-borbonici… chiunque.
Negare a qualcuno il diritto di essere se stesso, di esprimere la
propria memoria storica in modo pacifico, non è solo un errore politico, ma
un pericoloso attentato al diritto altrui.
E questi attentati, alla lunga, portano solo divisione e sventure.
Ma se in un Paese come il nostro persino parte della magistratura sembra aver smarrito questi concetti basilari, dove andremo a finire?
Come può il PM Pavone presentare ricorso contro
l’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di 23
manifestanti che, nel 2024, fecero il saluto romano durante il “Presente”?
Ma davvero si può considerare quell’atto come una rifondazione del partito
fascista?
Siamo davvero ancora fermi a questo, dopo ottant’anni?
Non credo che Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, fosse impazzito quando proclamò l’amnistia nel lontano 1946.
Così come non credo che i padri costituenti, nel redigere l’undicesima disposizione transitoria e finale, fossero impazziti quando stabilirono che l’esclusione degli ex appartenenti al Partito Fascista dalla vita pubblica durasse solo cinque anni.
E nemmeno le numerose sentenze favorevoli degli anni ’90 e 2000, che hanno persino riconosciuto la legittimità della denominazione del partito “Fascismo e Libertà”, possono essere ignorate o derubricate a meno autorevoli di quelle dei magistrati di oggi.
Dunque, di cosa stiamo parlando?
Che clima si vuole ingenerare?
A voi lettori l’ardua sentenza.
Lorenzo Valloreja
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