TRENI ITALIANI SENZA ACCIAIO E SENZA ITALIA: LA SOVRANITÀ DELL’INGANNO

Lo spot delle Ferrovie dello Stato è indubbiamente suggestivo: bambini che sognano, famiglie che viaggiano, tecnologie che brillano tra paesaggi mozzafiato e il solito Bocelli che canta. Ma è proprio guardandolo che mi è venuta voglia di staccare la spina al proiettore e accendere la luce della verità.

Perché la verità, quella nuda e cruda, è che meno del 50% dei treni che viaggiano sui nostri binari è effettivamente prodotto in Italia. E anche quei treni che escono da stabilimenti italiani – come i Frecciarossa o i Rock – non sono italiani. Sono costruiti da multinazionali straniere, in primis Hitachi Rail, che ha acquisito la storica AnsaldoBreda. Insomma: fabbrichiamo a casa nostra, ma non possediamo nulla. Né brevetti, né controllo, né autonomia industriale.

Nel frattempo, l’acciaio italiano muore. Taranto, che dovrebbe essere il cuore dell’industria pesante nazionale, marcisce da anni sotto il peso di promesse disattese, scatole cinesi societarie e governi senza coraggio. Ma una Nazione senza acciaio non ha treni, né navi, né difesa, né infrastrutture. Senza acciaio non si fa industria. Senza industria, non si fa sovranità.

E allora, lo vogliamo dire o no che lo Stato italiano dovrebbe nazionalizzare e rilanciare l’impianto di Taranto, invece di lasciarlo morire? Risanarlo sul serio, potenziarlo, renderlo il cuore della transizione ecologica, senza svenderlo a capitali stranieri?

E che fine hanno fatto le acciaierie di Terni, Piombino e di tante altre città italiane? Chi ci ha raccontato che “l’acciaio è superato” ha mentito, sapendo di mentire. Perché senza acciaio non rilanci nemmeno Leonardo o Fincantieri, aziende che dovrebbero beneficiare del famoso 5% del PIL destinato alla Difesa, come annunciato con enfasi per compiacere Washington.

Serve una visione. Serve tornare a fare da soli, come faceva Mattei. Non si tratta di autarchia, ma di dignità economica e strategica. La vera transizione ecologica non è quella che chiude le fabbriche, ma quella che le rende pulite e competitive. Serve acciaio italiano per treni italiani, per navi italiane, per infrastrutture italiane.

E se oggi siamo costretti a commuoverci davanti a uno spot ben fatto, mentre compriamo carrozze costruite all’estero, è perché abbiamo smarrito la nostra identità produttiva.

È tempo di ritrovarla. Non con la retorica, ma con la politica industriale. Con scelte forti, coraggiose, come avrebbe fatto Enrico Mattei. Lì, e solo lì, c’è il futuro dell’Italia.

Intanto, gli altri si comprano la nostra manifattura, il nostro acciaio, la nostra storia.
Ma noi, no. Noi applaudiamo, contenti dell’immagine, purché luccichi.

Anche se sotto, dentro, dietro… non c’è più niente.

Lorenzo Valloreja

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