DALLA COLONIA GRATUITA AL CAMPUS A PAGAMENTO: COSÌ L’ITALIA DEMOCRATICA HA ABBANDONATO I SUOI RAGAZZI

Pluto imperversa in questi giorni sulla nostra penisola, facendo registrare temperature record: oltre i 40 °C in Sardegna, Toscana e Trentino, con un’anomalia termica superiore a +2,7 °C rispetto alla media nazionale.

Nel frattempo, complice il caldo, la maxi scritta delle Assicurazioni Generali sulla Torre Hadid di CityLife si è staccata da un’altezza di circa 192 metri (per fortuna senza causare feriti), mentre poche ore fa, nel quartiere Prenestino di Roma, una stazione di servizio che distribuiva GPL è letteralmente esplosa, ferendo tra le 40 e le 45 persone, alcune delle quali in modo grave.

E sotto questa canicola, a crollare non sono solo gli edifici, ma anche l’idea — sempre più fragile — di tenere le scuole aperte durante l’estate.

Infatti, puntuale come la notte di San Giovanni, anche quest’anno qualcuno è tornato alla carica con la proposta di lasciare aperti gli edifici scolastici durante i mesi estivi. Non solo per le famiglie impossibilitate a prendersi cura dei figli per tre mesi consecutivi — spesso oberate dal lavoro e spinte da una società che pretende di delegare ogni funzione educativa — ma anche, e soprattutto, per quei nuclei familiari che non dispongono delle risorse economiche necessarie a far vivere ai propri ragazzi un’estate degna di questo nome.

In altre parole: per chi non può permettersi nemmeno la spiaggia libera.

Ma se in 150 anni di scuola dell’obbligo questa è sempre rimasta chiusa per tre mesi — da giugno fino a tutto agosto, e fino all’anno scolastico 1977/78 addirittura fino al 30 settembre — un motivo ci sarà. E la ragione non sta, come ripetono alcuni più per moda retorica che per reale ragionamento, nel solito patriarcato, né nel fatto che le donne restassero a casa e i figli dovessero contribuire ai lavori agricoli.

L’unica cosa che i bambini potevano fare, infatti, era assistere i genitori in piccoli lavori: la raccolta della frutta, degli ortaggi, delle erbe, delle uova; oppure accudire i fratellini mentre i grandi lavoravano nei campi. Ma mai — sottolineiamolo — tagliare il fieno con la falce o mietere il grano, attività tipiche dell’epoca. Né tantomeno vendemmiare, visto che all’epoca la raccolta dell’uva avveniva in ottobre, così come quella delle olive si faceva a novembre inoltrato.

In buona sostanza, ieri come oggi, i ragazzi restavano — e restano — a casa d’estate perché gli edifici scolastici erano — e sono — per studenti e insegnanti dei veri e propri “forni crematori”. E con le temperature attuali, lo sono ancora di più.

All’estero, ad esempio in Finlandia, Svezia o Germania, le scuole chiudono per una settimana a febbraio e riaprono a metà agosto non perché gli insegnanti del Nord Europa siano più professionali e meno fannulloni degli italiani, ma semplicemente perché là febbraio è davvero il mese più freddo dell’anno, e le temperature che si registrano a metà agosto in Finlandia non sono quelle che si registrano in Spagna, in Italia o in Grecia…

E se poi ci mettiamo pure che le nostre scuole, oltre a non essere climatizzate e spesso strutturalmente fatiscenti, nella stragrande maggioranza dei casi non hanno né palestre né piscine, allora — per restare in tema bellico — come pensiamo di far svagare i nostri ragazzi in queste torride scuole? Forse facendogli scavare delle trincee?

Non è certo rinchiudendo i nostri figli in questi campi di concentramento estivi che li affrancheremo dalla disparità sociale evidenziata da chi può permettersi i costosi campus estivi privati… anzi: li condanniamo alla peggiore bolgia dantesca possibile.

Ed è qui che viene da chiedersi: ma lo Stato, le istituzioni, dove sono? Cosa fanno?

Perché si parla tanto male del fascismo, si storpia la storia tirando in ballo il patriarcato come fosse il cacio sui maccheroni, ma nessuno ricorda che — proprio durante il regime — lo Stato realizzò le prime colonie estive per i ragazzi, sia in montagna che al mare, con una fruizione del tutto gratuita. Oggi, invece, quelle strutture e quei servizi sono scomparsi come nebbia al sole… perché?

Molti hanno un’occupazione che non li tira fuori dalla povertà. Le nostre donne, in nome dell’emancipazione, sono state costrette ad abbandonare il ruolo di madri ed educatrici, schiacciate da ritmi lavorativi insostenibili.

È questo il paradiso della democrazia? Sono questi gli uomini e le donne “nuovi” del mondo dei diritti?

Chiediamocelo, cari lettori… oppure, con amarezza, ammettiamo che è stato tutto un grande inganno.

Ciò che abbiamo lasciato aveva forse più valore di ciò che abbiamo conquistato o che — peggio ancora — ci è stato concesso?

Vale la pena delegare agli altri il compito di educare? Lavorare con ritmi così serrati esclusivamente per sopravvivere ha senso? Una società che ci porta ad abdicare alla genitorialità, che ci spinge a rigettare i lavori manuali, che ci impone di chiuderci nelle nostre case chini sui cellulari o davanti alle piattaforme è veramente una società giusta? È per questo che i nostri padri hanno lottato e sono morti?

Personalmente credo di no.

Ci stiamo facendo male da soli e neanche ce ne rendiamo conto.

Non mi piace generalizzare ma — personalmente ho vissuto delle esperienze, avendo lavorato all’interno della scuola italiana in tutte le sue componenti e sfaccettature, dalla scuola dell’infanzia fino ai licei — posso garantirvi che ho assistito a scene di madri che letteralmente lanciavano i propri figli nelle aule dell’asilo, in orario prescolastico, per poi correre al bar di fronte e stare lì a starnazzare dalle 8:30 del mattino fino alle 11:00… perché? Ne vale la pena? Cioè, l’emancipazione della donna si esprime forse nello scimmiottare il comico Cacioppo in una delle sue più note performance?

Spero che conveniate tutti con me… perché la risoluzione di ogni problema è sempre nell’ammissione dell’avere un problema.

Lorenzo Valloreja

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