BISOGNA RIPORTARE IL NOSTRO CALCIO A DIMENSIONI PIU’ NAZIONALPOPOLARI

La Nazionale di Calcio, in Italia, è stata da sempre l’unica istituzione che ha fatto sentire veramente unito il nostro Paese. Per essa si sono celebrate notti magiche, a volte ci ha fatto anche imprecare, ma a prescindere da questo un popolo intero si è sempre immedesimato in quei colori e su quelle maglie abbiamo riversato le nostre frustrazioni e voglia di riscatto. << È l’Italia che va … >>, come cantava Ron, un’Italia che si era ripresa alla grande dalla guerra persa, un’Italia dove il ceto medio rappresentava la stragrande maggioranza della popolazione e dove i sogni di ognuno di noi potevano realizzarsi. Un’Italia insomma che guardava il futuro dritto negli occhi. La celebre scena del ragionier Fantozzi che – agghindato con “calze, mutande e vestaglione di flanella”, mentre degusta una frittatona di cipolle accompagnata da una familiare di Peroni gelata – guarda la partita Italia – Inghilterra, si erge plasticamente a simbolo iconico della nostra identità sportiva più di ogni altra parola e, a quanto pare, con la scomparsa di Paolo Villaggio anche quell’Italia sembra definitivamente sparita.

I nostri giovani non guardano più il futuro dritto negli occhi del loro Paese d’origine ma, lo osservano, dall’alto di altri orizzonti e come nel migliore degli hotel per un cliente che va via tre nuovi ne arrivano: sono i cosiddetti migranti, gente di buone speranze, che però non si è capito ancora se arrivano per restare o per andare via, se vengono per diventare italiani o per portare e trapiantare, invece, i loro usi e costumi qui da noi, trasformando a poco a poco il nostro Paese nel loro.

In questa crisi d’identità collettiva, con una società italiana impaurita e guardinga, la nostra Nazionale tanto amata non poteva essere da meno e così balbetta, stenta.

Brucia ancora sulla nostra pelle la mancata qualificazione a Russia 2018 ed il pareggio di ieri sera con la Polonia di certo non entusiasma.

C’è chi in precedenza come il CT Mancini, pochi giorni fa, aveva ammonito i club della massima serie a far giocare i calciatori italiani: << … in serie A, ne abbiamo di bravi ma alcuni stanno in panchina mentre al loro posto giocano stranieri meno dotati >>.

Subito a questa dichiarazione sono seguite delle polemiche da parte di chi, come Giovanni Caccavello, sulle pagine de Il Sole 24ore, con un articolo fazioso, ha liquidato simili esternazioni come: << discorsi protezionisti da bar >>.

Invece mister Mancini ha pienamente ragione. Egli infatti ha sollevato un problema noto a tutti ma che, per la nostra indole spiccatamente esotista, negli  anni, è passato del tutto inosservato.

La FIGC fino a quando si è attenuta al tetto massimo dei famosi 3 stranieri per squadra ha visto la propria nazionale esprimersi sempre ai massimi livelli. Tolto questo vincolo i club e con essi il mondo del calcio italiano in genere, non hanno investito più come avrebbero dovuto sui propri vivai.

Infatti troppo spesso  le nostre società sportive si affidano alla ricerca di perle scovate nelle più disparate parti del globo, possibilmente nel terzo mondo. Ciò avviene essenzialmente per i maggiori margini che, sia i procuratori che i club calcistici, riescono a garantirsi.

Utili che di certo arricchiscono i singoli ma che di contro fanno altrettanto male ai nostri giovani atleti.

Un dato su tutti: durante la stagione 1989/90, prima dell’avvento della famigerata sentenza Bosman, il campionato di Serie A ospitava solo 53 stranieri i quali rappresentavano poco più del 14% di tutti gli atleti che solcavano i campi da gioco della massima serie. Esattamente vent’anni dopo, nel campionato 2009/10, gli stranieri erano arrivati a quota 228 unità rappresentando così circa il 41% dei calciatori della Serie A.

Questo trend che cosa ha comportato?

Due eventi fondamentali:

  • da un lato la preclusione della massima serie a molti nostri connazionali capaci;
  • dall’altro l’emigrazione di diversi nostri calciatori notoriamente bravi e famosi, presso società non italiane.

Quest’ultima vicenda, lentamente, ha affossato ancor di più la nostra Nazionale. Perché?

Perché il calcio da noi è di casa e portando i nostri atleti altrove abbiamo fatto si che il livello degli altri campionati si affinasse. Riprova ne è che, negli ultimi mondiali, assistiamo sempre più spesso alla nascita di nazionali rivelazione, Paesi, cioè, che oggi giocano bene pur non avendo nessuna solida tradizione calcistica. Al contrario, in madre patria, non riusciamo a colmare il gap di quei giocatori andati fuori perché occupiamo i campi da gioco con un numero ogni anno sempre più consistente di stranieri togliendo così la possibilità a molti italiani di maturare le giuste esperienze.

E tutto questo accade sempre e solo per l’avidità dei singoli.

Per far ripartire il calcio italiano una limitazione degli stranieri sarebbe più che necessaria ma, ahimè, un’altra limitazione dovrebbe essere imposta: quella del potere dell’economia.

Il calcio, lo dice il termine stesso, è un gioco, non un’industria ed alla dimensione sociale, ludica e prettamente sportiva, dovrebbe essere riportato.

Lorenzo Valloreja

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